In una località di mare

C’è un po’ di ruggine sulle vecchie ringhiere blu che cingono il gazebo di un lido. Le hanno ridipinte due anni prima, ma la salsedine le sta già di nuovo rovinando. Alla fine di agosto, in una piccola località di mare, le famiglie vengono sempre con i ragazzi a trascorrere qualche giorno di vacanza, in attesa che le scuole ricomincino. Affittano un ombrellone e alcune sedie e sperano nell’ultimo sole estivo. Un bagnino vestito di rosso, con le unghie dei piedi molto piccole, è seduto sulla riva a controllare i bagnanti, mentre alcune signore si portano i libri sulla scogliera e stanno con i piedi nell’acqua. Parlano di figli e piatti da cucinare, di scuole e camere da letto. Quel giorno fa molto caldo. C’è un uomo di cinquant’anni, alto, molto magro e con i baffi, ha un sorriso caldo, ama la musica classica, le caramelle alla liquirizia e non mette mai i guanti, nemmeno d’inverno. Lavora tutto l’anno in una banca, lo mandano di città in città a controllare conti e sportelli. Prende aerei, treni, autobus, guida per ore la sua macchina, ma non sa andare in bicicletta: non ne ha mai avuta una, quando era piccolo la sua famiglia era molto povera, lui usciva a giocare con i suoi pochi amici per le strade di un’antica città dove c’erano tanti gatti, poi all’ora della merenda chiedeva alla madre da sotto il balcone pane e pomodoro. E la madre li preparava e li metteva in un sacchetto di carta, su cui l’olio faceva spuntare delle macchie scure ma profumate: quando usciva sul balcone, aveva una veste azzurra e lui era ancora lì sotto ad aspettare. Ad aspettarla. Ora, in questa piccola località di mare, quest’uomo si gode un gelato sotto l’ombrellone, lo mangia voracemente, come fa sempre. Ha finito di leggere il giornale, non vede più la moglie e il bambino. Ma guarda meglio gli scogli, la moglie sta parlando con un’amica, si appoggia a un cuscinetto gonfiabile per stare a galla in acqua. Sente l’eco dei loro discorsi, ma non distingue le parole. Si sente tranquillo. Il bambino è al gazebo, dove alcuni videogiochi e un vecchio flipper davanti ad alcuni tavoli in plastica bianchi sono l’attrazione principale. Accanto al gazebo c’è un piccolo bar con una veranda dove i proprietari del lido servono bibite fresche o il caffè con la panna. Ogni mattina in quel bar un uomo simpatico con l’impermeabile blu arriva, ordina e si siede vicino alla finestra. A volte guarda, altre volte, sempre seduto, scrive sul retro di alcuni volantini colorati. Viene al lido anche quando fa caldo, ma nessuno gli chiede mai perché indossi un impermeabile. Il padre sotto l’ombrellone pensa al figlio, pensa che non passa sempre molto tempo con lui, che durante l’anno lo vede solo nel fine settimana, che non sa sempre cosa faccia, cosa pensi, come cresca. Lo raggiunge al gazebo. Il piccolo ha appena finito una partita a flipper, non è molto bravo, nota spesso che certi suoi amici riescono a fare molti più punti, mentre lui perde subito. Ora, questi amici sono andati a fare il bagno, ma lui non vuole stare con loro. A volte lo prendono in giro, allora lui si sente più sicuro nel gazebo, ha notato l’uomo simpatico con l’impermeabile blu, ma non vuole disturbarlo, anche se gli fa piacere che lui ci sia. Il padre arriva, sorride nel vederlo giocare goffamente con il flipper. Vuole fare una partita anche lui, non ha mai giocato al flipper, sarebbe bello farne una con il bambino, ma ha lasciato i soldi sotto l’ombrellone. Il figlio si gira verso il padre, capisce che vorrebbe giocare con lui ma non sa come dirgli che non ha più monete. Pensa sia una occasione persa, che il padre non era mai venuto a vederlo giocare, che vorrebbe non aver già usato tutte le monete. “Ah, le hai finite?”, dice il padre, senza nascondere un leggero dispiacere. “Sì.”. Pausa. “Scusa”. Alcune lacrime di amarezza lo attraversano internamente. Il padre sorride: “Hai fatto il bagno? Andiamo da mamma?”. E il bambino segue il padre sorridendo, ma pensa che avrebbe dato qualsiasi cosa per avere un’altra moneta, in quel momento. Glielo leggevo in faccia, perché anche io ero in quel gazebo. E ho visto tutto.

Palermo shooting (Wim Wenders)

L’ultimo suo film, Wim Wenders ha deciso di andarlo a girare a Palermo, richiamandone con grande stile gli angoli, i mercati, i cortili, le piazze affollate, le grida del popolo. “Palermo shooting” è un'opera molto strana ed evocativa, piena di spunti letterari e filosofici, il cui mistero non può certo sfuggire a chi conosce questo regista. E’ la storia di un artista tedesco, maestro del design, che in patria gode di grande successo (è tra l’altro il fotografo ufficiale di Milla Jovovič, che nel film compare nel ruolo di se stessa), ma che sente un vuoto dentro di sé. Il mondo frivolo del jet set, l’inconsistenza delle sue avventure di dongiovanni, una certa tendenza alla malinconia e alla solitudine lo spingono a intraprendere un’esperienza, inizialmente di lavoro, a Palermo. Ma oltre al fascino della città siciliana, a trattenerlo qui è una catena di misteriosi incontri con un uomo incappucciato e tutto vestito di bianco, che lo sorprende con dei dardi di cui solo alla fine comprendiamo il significato: “la morte è una freccia scoccata dal futuro”, dice infatti questo fantasma dal volto di Dennis Hopper, quando incontra il protagonista in un’antica biblioteca simile alle prigioni di Piranesi. In effetti il designer e fotografo, tra le strade affollate di Palermo, aveva sorpreso la morte una prima volta con la telecamera, poi con la macchina fotografica dopo aver scansato una sua freccia. Flavia, una restauratrice interpretata da Giovanna Mezzogiorno che sta lavorando da due anni proprio a un antico affresco che rappresenta la morte, quindi l’unica a credere ai suoi vaneggiamenti, accompagna il fotografo sulla strada dell’uomo incappucciato. Il dialogo finale con la morte, che si scoprirà poi essere più preziosa di quanto si pensi, riprende in chiave moderna “Il settimo sigillo” bergmaniano, mentre la figura del viaggiatore in cerca di sensazioni ricorda John Malcovic a Portofino in un episodio di quel piccolo capolavoro che è “Par delà des nuages” di Antonioni. Una dedica importante a questi due grandi maestri, morti lo stesso giorno durante la lavorazione del film, li mette in relazione. Del tutto personale, invece, è la rielaborazione che Wenders fa del tema dell’immagine. In filosofia infatti, l’immagine è sempre legata alla morte, poiché è una rappresentazione che si sgancia dallo scorrere del tempo, non ha inizio né fine, non ha vita, ricorda l’ultima storia, la bellezza ma anche la catastrofe, è autoreferenziale. La fotografia è oggi l’immagine per antonomasia, spiega il bianco spirito Dennis Hopper, ma più di tutto ha rovinato quest’arte la comparsa del digitale, che toglie al negativo la concentrazione dell’artista, il fascino dell’invisibile, l’espressione delle ombre, ma anche il mistero del doppio: perdiamo col digitale la coscienza istantanea di essere sull’orlo di due realtà, tra le quali si oppongono forze speculari e forme rovesciate. Ora l’uomo dorme su letti giganteschi, ora si rannicchia su giacigli minuscoli, la forma e la mente non combaciano. Solo sfiorando la morte, oppure rifiutando di apprezzare la vita (il protagonista fa entrambe le esperienze), si può stare nell'aldiquà e nell'aldilà. Salvo poi conoscere e ritornare nel mondo. Come non farsi catturare da queste riflessioni e immagini sulla soglia di Wenders?

"The burning plain". Il confine della solitudine

L’argentino G. Arriaga, che ha diretto questo film, è stato anche sceneggiatore di “21 grammi” e “Babel”, due lavori che ho molto apprezzato e il cui principio compositivo è l’incrocio improvviso tra storie sostanzialmente diverse, ma scaturite da un fatto marginale (la vendita di un fucile in Babel) o dall’oscuro passato di un personaggio, come in questo film. Queste storie sembrano inizialmente procedere su binari differenti, ma il loro creatore, aiutandosi con calibrati salti temporali e dosando le risposte allo spettatore, lascia delle tracce di congiunzione, lavora, cioè, su quelle che Tomaševskij definiva “motivazioni compositive”: un certo particolare non viene inserito a caso, ma tornerà utile nel prosieguo dell’opera. Čechov d’altra parte spiegava: “Se all’inizio del racconto si dice che un chiodo è conficcato nel muro, alla fine dovrà impiccarsi l’eroe”. Ecco un esempio nel film di Arriaga: al funerale del padre di Santiago, bruciato tra le braccia della sua amante (un’ottima Kim Basinger!) in una baracca dispersa vicino al confine con il Messico, il marito della donna adultera si porta i suoi quattro figli per maledire quelli dell’uomo che gli ha portato via sua moglie. Solo la figlia maggiore, quando si trova Santiago davanti, sembra volersi fermare per un attimo in più. Capiamo in quel momento che tra i due sboccerà qualcosa. Si tratta di un rapporto che nasce troppo presto, attraverso cui la ragazza cerca di liberarsi inutilmente del peso immenso di un gesto, involontario ma fatale, compiuto proprio contro la madre. Alcuni anni dopo questo accadimento (ad interpretarla ora è Charlize Theron), cerca ancora di trovare un equilibrio come responsabile di un bel ristorante, svariate e superficiali avventure con uomini diversi le portano solo disordine e desiderio di morire. La vediamo su un’alta parete rocciosa, come in un quadro di Friedrich, sulla soglia del suicidio. Poi, improvvisamente, si rifà vivo quel Santiago da cui lei aveva avuto una bambina, ma da cui era scappata per la vergogna del suo gesto. Tutto scivola così verso un avvilente lieto fine che è il tallone d’Achille di questo film. Si ha l’impressione che un epilogo così banale sia stato imposto al regista, così, invece di pensare alla fine del film, si preferisce ritornare al suo sviluppo, al confine della solitudine, alla waste land che sta nell’anima di alcuni personaggi, quel senso di vuoto che esplode improvvisamente nei loro destini come il gas distrugge lo squallido rifugio degli amanti, ma si porta dietro per anni anche le conseguenze

La nebbia

La nebbia volteggiava misteriosa quella notte, mentre M. si aggirava per le strade con passo lento, ma costante. Era stato al teatro con gli amici, però Lei non era voluta venire; gli aveva detto che lo avrebbe aspettato a casa sua. Sì, a casa sua.
La nebbia volteggiava ancora, sempre più misteriosa, nascondendo il sorriso di M., la nebbia cancellava i suoi passi solitari. Sì, i suoi passi solitari.
L'allegria del locale dove M. si era fermato a bere del vino con gli amici, dopo lo spettacolo, gli aveva fatto assaporare il momento in cui l'avrebbe vista, appoggiata all'uscio del suo appartamento, i capelli legati, impaziente per la felicità di poterlo riabbracciare.
Uscito dal locale, M. si introdusse nei tentacoli della città, accese una sigaretta per calmare l'ebbrezza e la fumò nervosamente, in brevissimo tempo. Cominciò poi a correre furiosamente, la fiamma che animava il suo sangue sorresse quella corsa fino a quando non arrivò al cancello dei giardini pubblici. Lo scavalcò agilmente e prese, fra tutte, la più bella rosa che abbelliva le siepi del giardino. Sì, proprio la più bella.
La casa di Lei era ormai vicinissima e quando la scorse da lontano, si sentì un po' stanco. C'era una strana luce che proveniva da una finestra del suo appartamento. Sì, una strana luce.
M. si avvicinò con passo lento e incostante, stringendo la rosa tra le mani, sorridente. E la nebbia volteggiava misteriosa quella notte. Sì, proprio quella notte.
M. si avvicinò alla finestra. E vide tutto.
La rosa che stringeva tra le mani restò sul davanzale di quella finestra; quando la pioggia la bombardò, riducendola a un umile stelo, M. era già lontanissimo.
Avrebbe camminato a lungo quella notte, la pioggia non lo avrebbe sconfitto e nessuna luce avrebbe sciolto la nebbia, che continuava a volteggiare misteriosamente.

Estate 1994

"Il divo" (Paolo Sorrentino)

Grande soddisfazione ho provato nel vedere il nuovo film di Sorrentino, che propone in una ricostruzione affascinante e ricca di raffinate pennellate da visionario del cinema, l’ultimo periodo della carriera di Giulio Andreotti, da quando ricevette l’incarico di formare il suo VII e ultimo Gabinetto fino ai giorni meno gloriosi dei processi che subì per l’incriminazione di mafia, all’inizio del nuovo secolo. Il glossario all’inizio del lungometraggio, le didascalie rosse e una narrazione asciutta dei fatti accaduti in questo ventennio, intrapresa senza lasciare sottintesi, rendono il lavoro particolarmente appetibile anche ai giovanissimi che hanno vissuto l’epoca di Andreotti solo per sentito dire. Il film però si concentra più che altro sulla sua figura di uomo, o meglio sugli slanci controllati, i sorrisi, gli amori irrealizzati, gli sguardi incuriositi che guizzano, rari e speciali, da questa grande figura di statista, tra le gelide parole della sua tagliente ironia. Come fa Sorrentino a darci il ritratto di un “uomo”, più che di un “politico”? Attribuisce a uno dei personaggi più potenti della nostra storia, a un indistruttibile, delle piccole debolezze e le trasforma in metafore continuate all’interno del testo cinematografico: Andreotti è ad esempio tormentato da un continuo mal di testa (come, ne sono sicuro, il Ponzio Pilato di Bulgakov), anela disperatamente, ma invano, alla reintroduzione di un farmaco che glielo possa alleviare, il Tedax, ma in assenza di questo beve continuamente aspirine. Ciò accade tutte le volte in cui deve ingoiare un boccone amaro, cancellarlo nel suo stomaco e non farlo trapelare: bella la scena in cui anche i membri della sua famiglia, nei giorni amari in cui si aprono i processi per mafia, seduti a un tavolo pasteggiano con una compressa sciolta nell’acqua. “Dobbiamo anche fare il male, per assicurare il bene del nostro popolo”, dice Giulio Andreotti nella scena in cui immagina di sfogarsi. Ed è l’unico momento di debolezza completa, un fiume in piena, immaginato come un monologo da palcoscenico, sotto i riflettori che non hanno tuttavia mai messo in imbarazzo questo uomo di ferro. La moglie, magistralmente interpretata da Anna Bonaiuti (ma non certo minore è la bravura di Servillo nell’impersonare il senatore), è l’unica che riesce a fare breccia nel “presidente del consiglio”, mentre tutti gli altri personaggi di cui si circonda, da Cirino Pomicino a Ciarrapico, non sono che “il concime di cui gli alberi hanno bisogno per crescere”. Scene memorabili: la corsa con scivolata di Cirino Pomicino, lo skateboard in transatlantico, la rappresentazione della morte di Falcone (lo stato è una macchina già distrutta, ancora prima di cadere), il bacio a Totò Riina, la telefonata alla moglie da Mosca. Mi è piaciuto pensare, uscendo dall’Odeon e parlando con Cinzia, Stefano e Jenny, che quando ero più giovane e non leggevo i giornali, ma pensavo e parlavo per slogan, Andreotti non aveva per me quel fascino (certo anche macabro) che questo film gli restituisce pienamente e che un po’ ci fa pensare al protagonista di un altro film di Sorrentino, le “Conseguenze dell’amore”.

Su un marciapiede

Una madre e un camminano insieme, sul marciapiede che costeggia una grande curva in una piccola città di provincia. Lei è stanca, affaticata dal caldo e dalle buste della spesa di cui lui fa finta di non accorgersi. Sta pensando cosa preparare, ma soprattutto che suo figlio sta crescendo, che alcune volte ultimamente ha anche indossato una cravatta, che un giorno dovrà andare via, che lo vede triste. Mentre lei cammina lungo il marciapiede, passando accanto al piccolo monumento dei caduti, lui che la segue da dietro con la testa china, vorrebbe andare a casa, staccarsi da lei e tornare nel suo mondo, a pensare ai suoi progetti, al suo futuro di viaggiatore, ma anche alle frustrazioni della propria vita, la mancanza di lavoro, la stanchezza per gli studi che si prolungano e una ragazza a cui è convinto di non poter piacere. Ha caldo perché indossa una giacca troppo pesante, non ha voglia di parlare: parla pochissimo lui, preferisce che la gente capisca che non sta bene, piuttosto che dirlo. Preferisce corrugare la fronte e trasmettere il proprio dispiacere, piuttosto che urlare e sfogarsi. La madre ogni tanto si gira e lo guarda, appesantita dalle borse di plastica bianche e verdi, dalla cose che ancora dovrà fare. Ora bisogna andare a comprare il pane, ma ci sono alcune centinaia di metri fino al panificio: con le buste della spesa piene, sotto un caldo soffocante e vicino a macchine grandi che passano veloci sull’asfalto bollente. Lui si ferma, vuole andare a casa, sa di darle un dispiacere facendo così. Vuole provocarla, ferirla, in quel momento non conosce altri modi per comunicare: “Senti non ho voglia, te l’ho detto, vacci tu, perché devo venire anche io?” E poi si gira, scocciato, per andare verso casa, nella direzione opposta. Ma sente una voce rotta dalla fatica e dal dispiacere rispondergli subito, come per non lasciarlo scappare: “Ti prego, vieni anche tu”. In quelle parole della madre c’è anche una sfumatura di disperata comprensione, che lui non percepisce subito. Però si volta e la guarda: lei è ferma, stanca e indifesa, le buste della spesa molto pesanti, il respiro veloce, ha le mani occupate e non può aggiustarsi gli occhiali che scivolano sul naso, mentre con gli occhi gli ripete quelle parole: “Ti prego, vieni anche tu”. E’ un attimo lunghissimo, lui la guarda e viene folgorato da un improvviso senso di colpa: sì, perché in fondo, anche se non gliel’ha mai detto, gli è sempre piaciuto andare con lei a scegliere i panini da mettere a tavola, entrare in quel negozio dopo aver infilato le mani nella vecchia tenda a strisce di plastica blu, salutare l’uomo simpatico con l’impermeabile blu che sta sempre vicino alla cassa, farsi inebriare da quell’antica cortesia che la panettiera riserva ai clienti speciali, sentire l’odore dei pezzi di focaccia calda ammassati dietro al vetro e guardare subito dopo il sorriso e il cenno di comprensione della madre, vedere sul suo volto quella semplicità che precede un atto di sacrificio. E il perdono. Madre e figlio: li ho visti un giorno in cui anche io ero su quel marciapiede.

Da un treno

Sul terzo binario il treno sta per partire. Un ragazzo con gli occhiali guarda fuori dall’interno del suo scompartimento. Ha appena posato la valigia sulla mensola che sta sopra i sedili, si è guardato intorno: nello scompartimento, oltre a un insopportabile odore di disinfettante, c’è un profumo di arancio. E poi silenzio. Solo un altro uomo: un anziano con una giacca di velluto vecchia e una camicia beige, che sta maneggiando una piccola radio con delle cuffie nere. Ha baffi bianchi, la barba del giorno prima, da lui arriva un odore non gradevole, ma intimo, di casa, forse dato dai vestiti, forse dalle sue mani callose e ingiallite dalla buccia d’arancia. Il ragazzo non lo guarda: dalla valigia ha estratto un libro, lo poggia sul sedile e si accomoda accanto al finestrino. Sta ripartendo per il nord, ha trascorso due giorni in una piccola città sul mare, in compagnia di una donna che non ama. Si incontrano tutti i mesi in una città diversa, lei lo aspetta alla stazione e lo accompagna al treno il giorno dopo, aspettando il successivo che parte per la sua città: non vuole perdersi un solo minuto della sua presenza. Cerca sempre di sorridere, ma ha un volto mesto, è tesa, lo guarda di continuo, rapita e innamorata, ma non si sente accettata: nella camera d’albergo, sotto le coperte, i due si sussurrano parole che sembrano vere, con lacrime femminili di dolore per una verità celata. Lei lo ringrazia, non dice mai di no. Poi di sera escono dalla camera, cenano in sonnacchiose trattorie, vanno a passeggiare, lui parla liberamente, guarda altre ragazze senza pensare a come si senta lei. Né lei, che percepisce di non essere piacente, si sente di rimproverarlo per questo. Vorrebbe, ma teme di provocare il suo fastidio, di sentirsi disarmata se lui le dice: “E perché non dovrei farlo? Non siamo mica insieme”. Ora lui è sul treno, l’odore di buccia d’arancia si fa ancora più denso: pensa a quando era piccolo e l’anziana dirimpettaia lo chiamava il pomeriggio alle due, sotto un sole battente lo invitava in quella vecchia casa che lui non amava, lo faceva sedere in quella cucina molto piccola e gli sbucciava un’arancia. Lo spruzzo che partiva dalla buccia e si diffondeva nell’aria mescolandosi alla polvere gli era sempre piaciuto. Poi gli regalava della liquirizia prima che andasse via, prendendola sempre da un vecchio barattolo in latta che stava sulla credenza della cucina. E prima di uscire, sulla soglia, mentre la vicina chiudeva il barattolo con la liquirizia, lui incontrava spesso quell’uomo simpatico con l’impermeabile blu: lo salutava sempre, ma lui non rispondeva. Ora, in quel treno, l’odore di arancia si mischia all’amarezza di una storia già finita. Fuori dal treno, sul binario, in piedi vicino alla panchina e alla macchina per timbrare i biglietti, lei guarda l’entrata del vagone. Piange, non ce la fa più a nascondersi. Lui la guarda, le fa un cenno di saluto. Ma lei non vuole guardarlo. Continua a piangere. Dignitosamente, guardando fissa la placca di metallo sul vagone sotto il primo finestrino e il simbolo della seconda classe. E mentre il treno parte lasciandosi dietro le lacrime di lei, improvvisamente appare una luce e lui, che ha guardato passare dal finestrino una ragazza che non si sentiva accettata, pensa per un attimo che non l’ha mai vista così bella come in quel momento. Questo lo so, perché anche io ero su quel treno.

In un bar

L’avvocato ha una cravatta azzurra, una camicia bianca sotto l’abito gessato, dei capelli grigi e leggermente mossi, una borsa di pelle nera in cui sono ordinate in apposite buste di plastica colorate un certo numero di pratiche. Usa piccole mollette a forma di animale per tenerle chiuse, le compra solo nei suoi viaggi all’estero. Una volta un magistrato gli ha chiesto il perché, ma lui non lo sapeva spiegare: ci ha pensato davanti a lui con lo sguardo spento, tanto che l’altro ha dovuto subito cambiare discorso per paura di averlo turbato. L’avvocato ha occhiali trasparenti, un sorriso ovvio e manifesto stampato sul volto olivastro. E’ alto, fuma una sigaretta fuori dal bar, mentre parla gesticola e ride, poi sorride e butta la sigaretta. Con garbo la spegne col piede, poi di fretta entra nel bar, seguito dai suoi colleghi e assistenti. E’ una buona giornata per l’avvocato, questa mattina la moglie non si è svegliata con lui, perché è ad Amsterdam per una causa e starà via per qualche giorno. Il risveglio senza di lei ha il sapore di un’avventura nuova. L’oroscopo delle sette e trentuno, sussurrato dalla radiosveglia, sembrerebbe favorevole: “cancro, una grande novità vi aspetta prima di mezzogiorno, ma dovrete riconoscerla”. Poi una telefonata che alle nove e diciassette lo distrae dai suoi impegni di lavoro, proprio mentre si appresta a dare un’ultima occhiata alla pratica della busta di plastica verde: “Ti prego, non abbandonarmi, sono tre giorni che non mangio. Sì, tre giorni che non mangio. Sai cosa vuol dire?” Ora sono le dieci, l’avvocato sorride, i suoi colleghi lo guardano ammirati. Lui si dice per un attimo che questo è bello, che è meglio ogni tanto non pensare alle cose che stanno in fondo al mare, che non bisogna cercarle, ma solo nuotare in superficie, sorridendo, senza mettere la testa in acqua. Non sa se è proprio questo che quel giorno cercava di dirgli l’uomo simpatico con l’impermeabile blu. Sono giorni che ci pensa. Ma la vita va avanti. Conta mentalmente fino a cinque, si carica, entra nel bar. Qui c’è una coppia che fa colazione, lui sta girando il suo cappuccino, lei sta ancora scegliendo il cornetto; poi c’è un uomo cupo, con i capelli neri a caschetto e una camicia a quadretti, che legge un quotidiano distrattamente, seduto vicino al frigorifero dei gelati; al tavolo vicino c’è una donna sola, molto bella, con un trucco pesante e delle scarpe nuove, che guarda l’orologio e sta per piangere; vicino al bancone c’è un uomo anziano estremamente elegante e profumato, legge la prima pagina del quotidiano e non ha fame. “Avvocato, buongiorno! Il solito per lei?” L’avvocato pensa che è ora di dare un “segno più” alla giornata. Poi ad alta voce, in modo che tutti nel bar sentano: “Ciao Michele. Dunque per me, un cappuccino. Ai miei amici fai ciò che vogliono, ma fallo un po’ meno buono di quello che fai a me. Hai capito? Il mio cappuccino deve essere un po’ più buono di quello dei miei amici”. Sorride. Si sente bellissimo. Questa frase anima tutti: gli amici ridono e non smettono di guardarlo ammirati, il ragazzo che girava il cappuccino guarda la ragazza e con un’espressione di intesa le sorride, la donna sola non piangerà, l’uomo seduto a leggere si gira e saluta l’avvocato con la mano, l’uomo elegante chiude il giornale per un attimo: guarda distrattamente le tazzine tutte ordinate, una sopra l’altra, sulla macchina del caffè, pensando che ci deve pur essere un motivo se sono tre giorni che sua figlia non mangia. Pensa proprio questo, io lo so. Perché anche io ero in quel bar.

In un castello

La principessa è stanca, stanchissima, gli occhi le si chiudono in continuazione, cerca di stare sveglia e appoggia la tazza alla guancia destra come se fosse un cuscino. Gli occhi aperti a fatica ancora le brillano, ma si chiudono subito dopo ogni sbadiglio. Si addormenta per un attimo, poi si desta, chiede scusa. Il re la osserva, con tenerezza, seduto di fronte a lei. C’è una rosa in un vaso di cristallo, sul tavolo, in mezzo a loro. C’è anche del cibo, poi del vino, una candela, un libro. “Mi racconti una storia prima che mi addormenti?”, chiede la principessa. Il re la porta nella camera, aspetta che lei da sola si metta sotto le coperte, lui le si siede accanto, afferra le coperte e le chiude sopra di lei, lasciando scoperto solo il viso. E mentre lei si sfrega i piedi per riscaldarli, lui comincia ad accarezzarla piano, sulla guancia, poi la fronte, sopra l’occhio, poi i capelli. La principessa è stanca, stanchissima. Il re le dice di non aver paura. C’è un lampadario sopra il letto, la luce è spenta, alcune farfalle volano nei paraggi. “Ora verranno”, dice il re. “Chi?”, chiede la principessa. “Verranno i tuoi piccoli arcieri, saliranno sul lampadario e getteranno una rete di cristallo. Per difenderti dagli spiriti della notte”. Il re guarda il lampadario, poi il viso della principessa, gli occhi chiusi. “Non devi aprirli, perché altrimenti gli arcieri non usciranno. Si vergognano di farsi vedere da te, perché sono umili. Tu non li vedi, ma loro ti difendono sempre”. La principessa sorride, gli occhi chiusi. Il re sussurra degli ordini agli arcieri, intorno alla camera, dice loro che dopo il suo bacio possono gettare la rete di cristallo. Dice loro di stare attenti, di non addormentarsi, di spaventare gli spiriti maligni se questi si affacciano. Perché la principessa deve dormire tranquilla, deve svegliarsi felice. Il mondo altrimenti ripiomberà nel disordine, la terra diventerà desolata. Il re bacia la principessa sulla fronte, gli arcieri gettano la rete di cristallo, la principessa già dorme. Serena. Gli spiriti maligni non verranno questa notte. Anche il re ora è stanco, ma torna vicino al tavolo. Guarda la rosa. Pensa che se quel giorno, tanto tempo prima, non avesse risposto all’uomo simpatico con l’impermeabile blu, la principessa non avrebbe mai sorriso. Guarda ancora la rosa. Non ci sono più i contorni. Il re appoggia la testa al muro e si lascia andare ai suoi pensieri. Ha gli occhi stanchi anche lui. Io l'ho visto, perché c'ero anche io in quel castello.

In un'edicola

Il venditore di giornali è seduto all’interno del suo chiosco e si gode un inizio di calura estiva. Non c’è nessuno per strada, ma lui ha voglia di parlare, porta un vecchio maglione verde, forse fa troppo caldo, ma non vuole toglierlo. Vuole stare seduto. E basta. Pensa a sua figlia, scontrosa, che non è andata a scuola, alle sigarette che ha visto nella sua borsetta. Al fatto che forse gliele ha fatte vedere apposta, per indurlo a una reazione, a sgridarla. Al fatto che lui non sa sgridarla. Pensa alla moglie che ultimamente non è più mattiniera, che ha voglia di rimanere a letto, che fa finta di dormire, ma in realtà si prepara a desiderare cose nuove, mentre lui si veste per uscire prestissimo, all’alba. E apre il chiosco, quando la luna non è ancora scomparsa e i lembi di plastica dei cestini dell’immondizia sbattono al vento. Ora sono le due del pomeriggio, si sentono dalle finestre delle case i rumori delle posate che urtano sui piatti. Il venditore di giornali vuole stare seduto. E basta. In quest’edicola di un’antica città del sud, non lontano da una piccola stazione ferroviaria, entra una donna vestita di bianco. Dietro c’è un uomo. Lei è bellissima. Lunghi capelli lisci, neri, semplici ma molto curati. Ha un braccio ingessato, il destro, lo porta appeso a un elegante foulard viola che le scende legato al collo. Gli occhiali da sole posati sulla fronte scoprono uno sguardo caldo, un sorriso sereno. Il suo profumo leggerissimo, che non invade ma colpisce, si spande tra i quotidiani e le riviste di enigmistica. Il venditore la guarda. Il suo sguardo non può essere discreto, perché tra poco quella donna se ne andrà, lui non la rivedrà più, non vuole perdersi nemmeno un secondo della sua presenza. L’uomo è dietro, ha un abbigliamento sportivo, occhiali da vista che ha appena tolto per leggere meglio la copertina di un libro. Ha il viso un po’ contratto, è distratto, mentre legge il titolo di quel romanzo, pensa all’uomo alto che ha visto il giorno prima, ubriaco, con un mazzo di fiori stretto nella destra tremante, pensa alla storia che gli ha raccontato. Lei si gira verso di lui, lo sfiora con la mano sinistra, lo chiama perché gli vuole mostrare delle cartoline: “Compriamone una, la inviamo a mia sorella”. Il venditore vede quel gesto con la mano e si anima. Sorride per un attimo. Vorrebbe forse essere altrove, pensa che se tanti anni prima avesse risposto in maniera diversa a quell’uomo simpatico con l’impermeabile blu, la sua vita sarebbe ora diversa, non tra pareti di carta, in attesa di un fuoco nuovo. L’uomo si avvicina per pagare, mostra la cartolina: “Quanto le devo per questa?”. “Venti centesimi… No aspetti, questi sono cinquanta”. “Ah, mi scusi”, dice l’uomo, “sono un po’ distratto”. Il venditore gli sorride, sceglie il momento giusto: “Lei è troppo innamorato!”. La donna, che intanto guardava altre cartoline, si gira subito verso di lui, sorride e lo guarda con gentilezza, poi, voltandosi verso l’uomo, lo prende ancora per mano, vorrebbe abbracciarlo, ma con il braccio ingessato è difficile. Allora si appoggia con la testa a lui, che piega un angolo della bocca e dice all’edicolante: “Lei ha ragione. Lei ha proprio ragione”. In quel momento vidi gli occhi del venditore farsi leggermente lucidi. Solo leggermente. Sì, perché anche io ero lì, in quell’edicola. E ho visto tutto.

In una casa

“Scrivi solo cazzate! L’ho sempre pensato, ma non te l’ho mai detto. Perché credevo di amarti”. Lo dice furente, arrabbiata, delusa. Non riesce più a trattenersi. Lui è arrivato con un mazzo di fiori, in bocca un retrogusto di vino, fa finta di essere felice, è volenteroso. Dieci minuti prima lei si stava guardando allo specchio, vicino all’ingresso dell’appartamento. Da quando non lo ama più, la gentilezza di lui si trasforma in sgarbo, le sue carezze in schiaffi, i baci in morsi, i fiori in pezzi di plastica colorati con il sangue. “Scrivi solo cazzate! L’ho sempre pensato, ma non te l’ho mai detto. Perché credevo di amarti”. Lui percepisce queste parole come sorsi di veleno, gli fa male il fegato da alcuni giorni, ha smesso di mangiare perché lei è fredda, ha smesso di fare ricerche e scrivere perché non ha voglia di stare meglio, perché ha solo bisogno di lei. Ora è sudato, ha corso in fretta le scale per arrivare in tempo. Perché i fiori non possono aspettare. Lei non piange mentre gli sputa veleno addosso, lui vorrebbe, ripensa a una prima volta. Era in un grande atrio, in un’università nuova, in Oriente: alcuni colleghi si avvicinano a lui, vedendolo arrivare. Una vecchia professoressa che non lo conosce è tra questi, lo chiama mentre lui gira lo zucchero in un bicchiere di tè: “Così giovane e già così bravo”. Avrebbe pianto nel bagno della facoltà dieci minuti dopo, ripensando a come tutte le frustrazioni del passato si possano trasformare in momenti di luce fulminante. Ora però, tra le mura di quell’appartamento, tutto è diverso: “Scrivi solo cazzate! L’ho sempre pensato, ma non te l’ho mai detto. Perché credevo di amarti”. Smette di sudare, di parlare, è alto uno e novanta, in quel momento si stupisce di pensare una cosa stupida: “chissà se le lacrime di un uomo alto come me sono più grandi di quelle di un uomo di altezza normale”. Poi mette i fiori sul tavolo, lei è girata verso i pensili bianchi della cucina. Fuma. Lui, senza guardarla, si volta, tiene la testa chinata, va verso la porta. Ma non esiste una porta. Non esistono le mura. Non esiste più niente di solido. Per lui è solo il vuoto. Questo lo so. Perché c’ero anche io quel giorno. E ho visto tutto.

A Francesco, Giuseppe, Stefano, Valerio

Ho provato dolore, un forte dolore fisico nell’andarmene da casa Br., prendendo le ultime cose mentre voi mi guardavate increduli. Ieri trascinavo la mia valigia per il quartiere Libertà in lacrime, con un nodo in gola, riportandomi dietro le parole di gratitudine e affetto che non vi ho mai detto. Ci provo ora. Nella mia valigia che rotolava per l’ultima volta sul marciapiede di via Putignani, c’erano: il mio piatto bianco quadrato, i vassoi in plastica, il tappeto colorato, la spugna verde per la doccia, l’oliera, il filtro per la tisana, il pentolino per scaldare l’acqua, i miei strofinacci, il piccolo televisore arancione con l’antenna scocciata (mi perdonerete mai per averlo rotto?), le bellissime conversazioni su cinema e letteratura con Stefano e il suo garbo esemplare, il buongiorno urlato di Dj Vale e la sua magica padella antiaderente, la suoneria del cellulare di Don Giuseppe e la sua “rocciosa” felpa viola, la console dell’avvocato e la sua affascinante loquela forense. Se mi dovessero chiedere cosa sia la nostalgia, ora risponderei che è il momento in cui mi sono reso conto che non vedo più queste cose; se mi chiedessero che cosa sia l’affetto, penserei a chi mi circondava con queste cose; se mi chiedessero cosa sia la felicità, penserei a queste cose. Grazie di tutto, ragazzi, quando sono arrivato a Bari non avevo nessuno: in questi due anni siete stati la mia famiglia. Non cambiate mai.

All'aeroporto (2)

C'è tanta gente che aspetta, come me, in aeroporto. Chi è atterrato, ha preso il bagaglio, esce dalla porta degli arrivi e si guarda in giro, in attesa di scorgere la persona che deve incontrare. Alcuni incontrano subito questa persona, altri guardano pur sapendo che nessuno è venuto, altri ancora si rallegrano di una presenza inaspettata. Una ragazza mora, bellissima, capelli lunghi e lisci, un paio di jeans e di stivali portati con eleganza, un maglione sportivo blu, è appoggiata alla ringhiera che sta davanti alla porta a vetri scorrevole da cui escono i viaggiatori. Ha le braccia conserte, come per ripararsi da un freddo che non c'è. Attende qualcuno che le porterà calore. Ha gli occhi inchiodati su quella porta, da cui esce un ragazzo molto alto, anche lui molto bello, con un lungo impermeabile beige, una valigetta in pelle morbida, giacca, cravatta, ma incedere sportivo. Un paio di Clarks. La vede prima di superare la porta, subito, fa cadere la valigetta, ma lo fa con uno straordinario self control. Apre le braccia e lei vi si getta, ma con calma, come per far capire che è una scena accaduta più volte, che questo momento va vissuto piano. Lui la accarezza e la bacia con sobrietà, le sussurra qualcosa, lei è abbandonata. Lui riprende la valigetta, la abbraccia e non parla più. Mentre i due si allontanano da lì, io che li guardavo pensai che l'egoismo in quelle persone non esisteva, che avrei voluto essere l'autista della loro macchina, un soprammobile della loro casa, che la mia solitudine era pesante, che volevo portarmi a casa un po' di quell'atmosfera che avevano creato in mezzo a tanta gente che sbuffava, una luce improvvisa. Anche io ero lì, quella sera.

"Anna Karenina" di Nekrosius

"Se vuoi che la tua ragazza ti lasci, portala a vedere lo spettacolo di Nekrosius. Dura cinque ore", mi dice scherzando la collega V.R. E' vero: cinque ore, ma se anche fossero state sei, io e Cinzia saremmo rimasti probabilmente seduti a lasciarci affascinare dalle visioni di questo regista lituano, classe 1952, che da alcuni anni domina la scena teatrale internazionale con spettacoli ad altissimo contenuto simbolico, tratti spesso dalla letteratura russa. Molto lunghi, certo, ma perché intensi, profondi, intrisi di una personale e altissima rielaborazione artistica del testo letterario. Vedendo Anna Karenina, ho ripensato a tutte le volte in cui si dice con un po' troppa leggerezza che "certi romanzi dell'Ottocento sono immortali". Ho letto tre volte Anna Karenina, uno dei miei romanzi preferiti. In assoluto. Lo sanno anche i miei studenti. Ammetto tuttavia che qui, dalla dimensione 2008, si possa restare lontani dal mondo dell'aristocrazia russa dell'Ottocento dipinto da Tolstoj, dalle convenzioni, i ruoli, la quotidianità dei personaggi che vivono le loro passioni in una continua esigenza di dominio di se stessi di fronte al pubblico. Invece Eimuntas Nekrosius mette in scena le nevrosi che potremmo riscontrare nella nostra esistenza, ma non vedere tra le pagine di Tolstoj: persino Stiva, lo scialbo fratello di Anna, appare come un burattino impazzito. Il lento declino di Anna è marcato dal tempo: orologi rotolano sul palco, in guisa di treni, per simboleggiare la caducità della passione, il tormento della solitudine, la falsità dei giudizi della società, mentre giochi di specchi e cornici ci portano tra i gironi infernali attraverso cui Anna sprofonda fino al suicidio (geniale la rappresentazione del treno che la investe). Tra le urla di tutti coloro che le stanno attorno (Karenin compreso!), ma che non possono capirla. Bellissimo il momento dei due celebri monologhi di Anna, l'attrice Mascia Musy si abbandona a uno "stream of consciousness" straziante, l'anima della protagonista lascia il suo corpo, si mette nelle mani di uno strano personaggio, un uomo basso e cattivo (l'incubo di Fussli? la "nedotykomka" di Sologub?) che ne rappresenta l'inconscio e che appare come un imprendibile demonietto sulla scena per svolgere vari ruoli. Questo straordinario spettacolo è un viaggio visionario tra le ombre di un'eroina classica, che però fa sentire l'eco del suo dolore fino alle piazze del XXI secolo.

13.02.08: "Caos calmo"

Caos calmo è un ossimoro, un’espressione composta da due elementi semanticamente opposti. Si riferisce a tutte quelle volte in cui vorremmo fare una cosa, perché ce l’abbiamo dentro, ma poi, fuori, nel mondo dove tutto deve essere “normale”, ne facciamo un’altra: vorremmo dire un sì che ci farebbe felici, ma diciamo no per educazione e rispetto; vorremmo realizzare un desiderio che è lì, a portata di mano, ma lo rimandiamo perché non c’è tempo; vorremmo esprimere il nostro affetto, ma siamo in pubblico o c’è qualcuno che ci guarda. Oppure vorremmo piangere, perché è morta una persona, ma la disperazione non distrugge il nostro apparente equilibrio. Vi è mai capitato di essere freddi di fronte alla morte, di stupirvi di non provare emozioni mentre attorno a voi tutti piangono, e quindi di sperare di poter piangere, di sforzarsi di farlo? Nanni Moretti trasmette proprio questo interrogativo nella scena di “Caos calmo” in cui piange, verso la fine. In questo bel film, in cui è evidente che egli non ha solo il ruolo di protagonista, ma che ogni tanto ha divagato dietro la macchina da presa con Grimaldi, Moretti, coadiuvato da ottimi attori come Silvio Orlando e Isabella Ferrari, ci guida verso il tema dell’elaborazione del lutto, già peraltro trattato nella “Stanza del figlio”. Qui però muore la moglie del protagonista, che resta da solo con la figlia piccola e tutta una serie di parenti, amici e colleghi che, ci si rende conto, hanno problemi maggiori dei suoi poiché si sono imbarcati verso una quotidianità ansiosa ed estrema, lontani ormai da quella soglia dentro cui, invece, lui rientra. Vogliono parlare con lui, ma non di lui. La sofferenza del vedovo Moretti invece si sviluppa secondo un percorso tutto particolare, lungo il quale si fa spazio il motivo dell’isola. Egli si dimentica del lavoro, si piazza tutte le mattine nel parco di fronte alla scuola elementare della figlia e l’aspetta, sviluppando però un’energia centripeta (Pareyson direbbe una “intelligenza positiva”) che attrae tutti gli altri personaggi verso la sua panchina. Mentre la sua storia finisce sui giornali, tutti gli fanno visita su quest’isola-parco: cognate incinte di uomini sbagliati, colleghi di lavoro menzogneri e con mogli squilibrate, amiche, donne e ragazze attratte in modi diversi da lui, persino il direttore (Roman Polanski!) di una grande società che si sta fondendo con la sua. Nessuno sembra scomporre la sua calma, il caos che egli ha dentro trova difficilmente espressione e questo apparente freddo equilibrio rischia di trasmettersi anche alla bambina. In questo film c’è molto di Moretti anche nella scena di sesso che tanto ha fatto parlare: bella perché realistica, vera, e per questo perturbativa.

31 gennaio 2008: "Le vite degli altri"

Tra le iniziative dell’UDU (Unione degli Universitari di Bari) vi è quella, graditissima, di organizzare rassegne cinematografiche. Nell’ultimo ciclo di film hanno previsto “Le vite degli altri”, che non ha bisogno di presentazione e se ne ha, si potrebbero usare le parole che l’amico e collega F.C. mi ha sussurrato ottanta secondi dopo l’inizio della proiezione: “Si vede subito che è un film bellissimo”. Un euro a testa, il Nuovo Splendor è pieno, alcuni ragazzi sono per terra, io Cinzia, Lina, Francesco I e II ci mettiamo alla ricerca di un posto, sembra di essere in famiglia: c’è tutta la facoltà. Il piacere di stare in casa e di vedere altrove i volti che incontri al lavoro. “Le vite degli altri” è un film sul tema del “grande benefattore”, o grande fratello, ormai attualissimo anche nelle democrazie che si sono da alcuni anni emancipate dal Socialismo. Nel 1984, nella Germania Orientale di Honecker, la polizia di stato ha il compito di “assicurare la felicità” dei cittadini, spiandoli senza pudore per isolare e punire i disobbedienti o quelli che sono in odore di dissidenza. Tra questi potrebbe esserci Georg Dreymann (nome in codice Lazlo), uno scrittore di teatro che, pur senza convinzione, si è allineato al regime. La fidanzata, bellissima, è la più quotata interprete delle sue opere teatrali. A spiarli, su ordine di un meschino ministro che vuole incastrare Dreymann e approfittare della donna, c’è il vero protagonista di questa storia, un poliziotto incorruttibile, nella cui vita sembra non esserci altro che il lavoro e il servizio alla patria. Lo squallore caratterizza ogni lato della sua esistenza di esecutore: guardate per convincervi i mobili posticci della sua casa (li potevate vedere uguali in tutti i paesi dell’ex-URSS), il riso in bianco che mangia a cena, il suo tetro giubbotto, il suo sguardo freddo, persino la prostituta con cui trascorre un’ingloriosa mezzora di letizia. Ma in questo generale squallore irrompe improvvisamente un senso di giustizia, una sete di libertà, la poesia di Brecht, e quello che era il prototipo di cattivo si trasforma in un'eroica vittima sacrificale. L’attore che lo interpreta ha purtroppo perso la vita l’anno scorso, ma la gloria e il merito di quest’opera hanno esposto il film a una pioggia di premi, Oscar compreso. La fluidità della sceneggiatura (non priva di momenti comici), l’equilibrio delle sequenze narrative, la bravura degli attori, la ricostruzione fedele di certi ambienti tipici di Berlino Est (guardate il bar, la mensa, gli appartamenti) in cui sembra mancare la fantasia, la creatività, lo stimolo, tutto questo conduce a un risultato emozionante, corale, avvincente. Davanti a una birra a Storie del Vecchio Sud, ci siamo goduti il post-film. Ma poi, una volta usciti, potevamo rinunciare ai krapfen alla crema in Corso Benedetto Croce?

All'aeroporto

Un padre esce dall’edificio dell’aeroporto, è appena atterrato di ritorno da un viaggio faticoso, forse è via da parecchi giorni, è basso, ha una valigia vecchia, ha occhiali sporchi, la pelle scura, dei capelli grigi, uno sciatto riporto sulla testa pelata. Supera la porta a vetri dell’aeroporto, fuori ci sono sua moglie e suo figlio. Lei piange, forse perché lo aspettava, forse perché il figlio la fa soffrire. E il figlio è dietro di lei, cammina zoppicando, è un quarantenne senza più curiosità, ha tanto rancore, ma non sa come sfogarlo, è scocciato, non vorrebbe essere lì, ma forse ha dovuto accompagnare la madre. Non gli piacciono le dimostrazioni di affetto. Non ha spazi. Il padre li vede e si trascina con la valigia verso di loro. La madre lo abbraccia e lo bacia. Piange. Il figlio li guarda da dietro, imbarazzato. “Dai un bacio a tuo padre, dai…” Lui prende la valigia del padre, si avvia: “la macchina è lì”. Il padre accende una sigaretta, la moglie piange ancora, quasi disperata, gli dice di spegnerla. Lui la spegne, abbraccia la moglie mentre cammina, sorride, ma forse vorrebbe piangere anche lui. Non può farlo, scompare lungo il marciapiede dell’aeroporto, con la moglie, dietro al figlio che ha fretta. Anche io ero lì, una sera, poi non li ho più visti.

9 gennaio 2008: "Lussuria" di Ang Lee

Al Kursaal danno “Lussuria”, il nuovo film di Ang Lee, vincitore dell’ultimo festival di Venezia. E’ tratto da un romanzo della scrittrice cinese Eileen Chang, è recitato da attori molto bravi, caratterizzato da una storia appassionante e scene molto belle, non escluse quelle erotiche. Eppure, questo era evidente anche a Cinzia, prevale la sensazione di vedere del cinema americano, senza quei tocchi di magia e gli equilibri complessi che ci regalano altri cineasti orientali: veramente orientali. Anche la trama è qualcosa di già visto: sullo sfondo della seconda guerra mondiale, durante l’occupazione giapponese di Shangai (1937-1945), si muovono e tramano tra questa città e Hong-Kong personaggi politicamente avversi, tra cui il direttore dei servizi segreti filo-giapponesi, che è segretamente insidiato dai ribelli. Tra questi vi è una delle sue amanti, la preferita, che si infila nel suo letto e ben presto nella sua vita con lo scopo di sorprenderlo e consegnarlo ai nemici, ma quando riesce a incastrarlo, gli suggerisce anche la via per salvarsi e va incontro ad una logica fine. E però questa trama fa acqua: difficile ad esempio credere che un uomo di ghiaccio (magistralmente interpretato da Tony Leung Chiu Wai) che molti vorrebbero uccidere, abituato ad avere cose e persone sotto il suo controllo, che si insinua “strisciando” nel corpo e nella mente della sua amante lasciandovi incanto, non solo lussuria, è difficile credere che non sospetti di lei, che non la faccia controllare, che si metta nelle sue mani. Restiamo tuttavia affascinati dalla bravura degli attori, dal lavoro dello scenografo: i lunghi vestiti di seta delle donne orientali altolocate e i loro passatempi al tavolo da gioco, le carrozze di Shangai, i piccoli ristoranti. Il fascino dell’Oriente, sempre più vicino, a portata di mano, che non smette di ammaliarci.

8 gennaio 2008: "Umiliati e offesi" di F. Dostoevskij

Mi sono lasciato alle spalle il 2007 con un leggero senso di nausea per le feste. Nei primi giorni di gennaio tutti mi augurano sempre che l’anno nuovo sia migliore del precedente, ma se la zingara mi dicesse che questo 2008 sarà uguale, o meglio, vissuto con la stessa intensità e carica positiva del mio 2007, non potrei che ringraziarla, darle una lauta mancia, uscire dalla sua baracca, sorridere mentre mi avvolgo la sciarpa attorno al collo e andarmi a bere un aperitivo con gli amici. Ho riletto un libro molto bello durante queste vacanze. Devi avere quattro o cinque giorni liberi per farlo, perché non puoi perdere il filo che lega le vicende di “Umiliati e offesi”, romanzo dostoevskiano a mio avviso tra i più efficaci. C’è il principe Valkovskij, un cattivo, o meglio il cattivo della letteratura. Ci sono alcune storie, amorose e non, che però sono tutte annodate alla sua esistenza depravata e crudele. Lui le distrugge senza pietà, non curandosi nemmeno di nascondere dietro la propria formale eleganza un’attrazione bestiale per il potere, il denaro, le donne. Abiezione. Tutti gli altri personaggi, umiliati e offesi dalle pieghe della vita, quando non direttamente dallo stesso principe, si affannano per non perdere la dignità, l’unica cosa che il principe non può togliere loro. Ho riso anche, però, immaginandomi il positivo Masloboev, amico ubriacone del protagonista e simpatico chiacchierone, tra le strade di Bergamo, nella nebbia, a caccia di ingiustizie a cui porre rimedio. Mentre dopo l’ultimo grappino esce da un bar di città alta, la moglie, che lo ama molto anche se lui non la porta mai fuori, gli prepara da mangiare in un prezioso servizio di piatti che nessun ospite ha mai ammirato. Ecco, io non solo vi auguro un anno migliore del precedente, ma di incontrare più gente come Masloboev, oppure di tenervela stretta se vi è già successo. Perché c’è sempre un principe che vi può insidiare…