Martedì 18 dicembre 2007: la rotativa della Gazzetta del Mezzogiorno

Pur essendo uno che cerca di organizzarsi sempre prima, sono convinto che le cose decise all’ultimo momento siano sempre le migliori. Sì, perché quando decidi all’ultimo, hai ancora l’ebbrezza del dubbio, non sai cosa sarà, non sei preparato, per cui una cosa gradita che ti capita senza che tu l’abbia prevista diventa Bella con la b maiuscola. E così, mentre stai andando allo spettacolo per il quale ti sei organizzato, spunta, graditissimo e decisivo, il Traversa, che prende me e Cinzia sotto la sua egida e ci porta alla chiesa della Vallisa: è in programma uno spettacolo di cori Spirituals. Piacevole esperienza. Il gruppo si esibisce con trasporto, invoglia gli spettatori a cantare, rievoca le melodie più famose di questi bellissimi canti, differenti dal gospel perché spontanei, improvvisati, quindi più volti all’espressione dell’umore, della passione, della personalità creativa. Al ristorante greco di Bari Vecchia c’è una cameriera simpatica, siamo tre diversissimi individui (elegante mise color castagna per Cinzia, foulard arcobaleno per Michele, divisa universitaria per me) e ci sembra di essere attesi da secoli: ci regalano birre, sorrisi e un piattino ellenico. La moussaka è molto buona, ma il dolce, lo prendiamo da Fanelli, in via Re David: d’altra parte il cornetto a fine serata è un “must” da quando sono a Bari. Ed è a questo punto che il Traversa fabbrica un’idea geniale col suo macinino delle meraviglie. Redazione della Gazzetta del Mezzogiorno, dove lui lavora: “Avete mai visto come si stampano i giornali?” Alle elementari mi avevano portato una volta a vedere la stampa dell’Eco di Bergamo. Ero il più basso tra i miei compagni, un signore imponente ci mostrava questi carrelli giganteschi dove si ammassavano le copie in stampa del quotidiano locale, io ero quasi intimorito dai rumori, le cinghie con i giornali, l’odore della carta e dell’inchiostro. Ci avevano regalato una copia dell’Eco e ricordo che l’avevo conservata a lungo come se fosse stata un pezzo da collezione. Venticinque anni dopo, rivedere una rotativa in azione, assistere alla produzione delle lastre, alla formazione del colore, alla stampa velocissima di un quotidiano che scorre su rulli pittoreschi prima di essere distribuito in tutto il sud, mi ha dato nuove cose. Soprattutto ho pensato che mentre dormo, proprio mentre io dormo, la notte, c’è un’Italia che lavora, un’Italia fatta di giornalisti, guardiani, operai e segretarie, inseguiti da fischi e sirene sotto le stelle, mentre l’autista di un furgoncino aspetta che si riempia il vano del suo mezzo per andare a distribuire il giornale alle edicole. Io sbadiglio, loro hanno appena cominciato. Dormiranno, spero, mentre io compro il giornale al chiosco, oppure lo leggo ordinando un espressino prima di entrare in università. Sì, perché una volta qualcuno mi ha detto: “tu devi capire una cosa, ora che sei a Bari: la Gazzetta del Mezzogiorno non si compra, ma si legge al bar”.

6 dicembre 2007: Eraserhead (David Lynch)

E’ uno dei miei registi preferiti. Ho imparato a conoscerlo dopo essermi appassionato alla serie di Twin Peaks, in cui tra i paesaggi del Montana, le camere con le alogene e i tavoli dei diner, si faceva spazio la maligna presenza degli spiriti dei boschi. Per vedere David Lynch bisogna accettare l’irruzione di cose strane nella tua realtà, cose che ti tengono sospeso tra un mondo che puoi capire e condividere e uno che porta all’invisibile, è fatto di sogni, evocazioni, voci e luci improvvise, in mezzo a un trionfo di rosso e viola. Il sipario, la porta e la tenda sono metafore molto comuni nel suo cinema: i protagonisti dei suoi film devono spesso risolvere misteri e alla fine del film il dubbio resta, perché sei riuscito a vedere le due dimensioni, ma non hai capito che cosa le fa comunicare, cosa c’è in mezzo, di cosa è fatta veramente la tenda che le divide. Come in Velluto blu, Mulholland Drive e sicuramente, eccedendo un po’ nello sperimentalismo, nel suo ultimo film, Inland Empire. Pochi artisti riescono secondo me a tenerti così a lungo nel mistero. Il suo primo lungometraggio, Eraserhead, forse è meno difficile da spiegare, ma ha un contenuto profetico. Sono andato a vederlo con Lina, Cinzia, Anna e Maria Rosaria, ma le avevo giustamente prevenute: lo fa anche il direttore della rassegna prima che inizi il film, invitandoci a tenere duro con lo stomaco. Quando Eraserhead uscì nelle sale nel 1975, fu infatti proibito alle gestanti e il motivo è chiaro: è la storia di un mondo industriale, grigio come il bianco e nero della pellicola, in cui il sole non splende mai e tutti vivremo come uomini inutili, integrati con pezzi di ferro (come il suocero del protagonista). Ci trascineremo da fabbriche dismesse a case squallide e vuote, in cui si annidano isteria e degrado. I nostri desideri saranno destinati a soffocare perché qualcuno agirà per noi (un uomo aziona le leve che simulano il momento della nostra procreazione), tutto ciò che faremo per perpetuarci è quindi destinato al fallimento. Il corpo si decompone, trionfa, raccapricciante, la morte fisica. Allora meglio evitare di guardare avanti, meglio vivere amori fugaci come quelli della vicina di casa. Il figlio del protagonista, un mostruoso verme tenuto in fasce e senza arti, ispira ribrezzo, ma anche pietà, con il suo lamento perpetuo. L’uomo, ci dice Lynch, si è distrutto da solo, si è inventato un mondo in cui realizzare i propri scopi materiali e ha sottomesso al suo volere anche la natura. Potrà mai riaversi? L’unica immagine felice del film è quella di una cagna che allatta i piccoli, mentre il protagonista cerca idealmente di fuggire la sua atroce condizione in un mondo di sogno: qui c’è luce, un palcoscenico con poltrone e tende (ricordate i sogni dell’ispettore Cooper?), una fanciulla deforme canta sorridente di un paradiso che verrà. Usciti dal cinema, ne abbiamo discusso molto, ma stretti nella “Suzuka” di Maria Rosaria e diretti alla croissanteria, abbiamo anche riso. E mentre per strada parlavamo dei simboli di Lynch, il freddo della notte di dicembre ci chiamava a casa.

01.12.2007: Per vie traverse. Una passeggiata a Pietroburgo

Siete mai stati in una radio? Non avete idea, se la risposta è no, di quanto sia interessante: armadi pieni di dischi e cd, piccole stanze insonorizzate con microfoni che piombano dal soffitto, simpatici tecnici del suono che ti fanno segni e correggono i tuoi indugi nel parlare. Io non avevo mai provato questa esperienza, eppure quella del dj è una figura che mi ha sempre interessato. Avrei anche voluto farlo, ma poi il destino, invece che davanti a un microfono, mi ha portato (e ne sono orgoglioso) davanti a una lavagna e a tanti studenti. Della radio, o almeno delle radio che io ascolto, mi piace l’entusiasmo sincero di chi ci lavora, la genuinità delle loro intenzioni, la spontaneità del linguaggio, il gioco di immaginazione delle fattezze del dj al solo sentirne la voce. E poi la musica, che in televisione ormai è diventata solamente un noioso, ripetitivo contrappunto a gente che urla, si insulta, si spoglia, si vende e dietro le quinte, per aver fatto questo, ritira assegni milionari. Comunque, in radio ci sono andato per la prima volta due settimane fa, a parlare di Pietroburgo su gentile invito di Michele Traversa, puntuale giornalista e fotografo, cercatore di attimi magici in terre lontane e vicine, animatore incallito della contemporaneità barese. Se abitate qui, è improbabile che non lo conosciate. Conduce su “L’altra radio” (www.laltraradio.it) un programma chiamato “Per vie traverse” (proprio come il suo libro di viaggi pubblicato da Stilo), in cui chiacchiera di paesi lontani con chi li conosce. Non vuole tuttavia che si parli solo delle cose che il giovane turista vorrebbe leggere sui cataloghi dei tour operator. Vuole che l’ascoltatore possa chiudere gli occhi, magari ascoltando una canzone in tema oppure i versi di un poeta, e si ritrovi a passeggiare sulla Prospettiva Nevskij, osservi i marciapiedi, i segnali stradali, i portoni dei palazzi, il naso delle persone che ci stanno camminando, se non l’hanno già perso come nel racconto di Gogol’. Oppure, sfidando le raffiche di vento gelato, vuole che incontri Stravinskij, come nella canzone di Battiato. Io mi sono divertito molto a parlare di Pietroburgo, la trasmissione è andata in onda oggi, ma se volete passeggiare per le vie di Pietroburgo potete ispirarvi entrando nel sito della radio e ascoltando l'intervista. Basta andare a "riascolta i programmi" e cliccare su "per vie traverse".

Domenica 25 novembre: Le voci di dentro (Edoardo De Filippo)

Se non avete mai visto Napoli, suggerisce un proverbio, è ancora presto per morire. Forse io sarò di parte perché ci sono nato, ma questa città è un palcoscenico. Si trascina lungo l'impervio cammino i problemi e i disagi che la stanno distruggendo, ma vivendoli in uno spirito comico permanente, alla luce di un riso eterno e terapeutico. Nemmeno lo scontroso Gogol’, che fu tra quelli che amò Napoli, riusciva a rinunciare all’allegria delle sue strade, a quella teatralità insita nella sua gente, al colore del dialetto e al buon senso consolante di chi lo parla. De Filippo fu uno dei maggiori interpreti della Napoli del dopoguerra. Nella sua opera si fa spazio quell’ambiguità che dobbiamo tollerare anche in Cechov: vengono definite commedie delle rappresentazioni amare e tragiche della vita, dove la parola scompare tra le pieghe del sospetto. Chi ha qualcosa da trasmettere muore, come Cupiello, come zi’ Nicola. Però si ride e il riso, sembra dirci Edoardo, l’eterno riso napoletano ci salva e rigenera, togliendoci anche solo per un attimo dalla fame, dalla povertà, dalla colpa e dall’inganno, da tutti gli angoscianti problemi che hanno minato anche ciò che a Napoli è più sacro, il nucleo familiare. Nelle famiglie di De Filippo si preparano delle tragedie, eppure non si comunica, non si parla, la verità viene alla luce solo per colpa dei pettegolezzi dei portinai e le cameriere, o di singolari coincidenze. Oppure, al contrario, notizie false, generate da sogni indistinguibili dalla realtà, dalle voci di dentro, possono indurre tutti i membri di una famiglia, cameriera compresa, ad accusarsi l’un l’altro di un delitto che non è mai stato commesso, quando invece sarebbe bastato riunirsi e parlare. Succede in quest’opera di Edoardo del 1948. Al Piccinni era una delle punte di diamante della stagione di prosa: Luca De Filippo la sta portando in giro in Italia da due anni, per la regia di Francesco Rosi e la suggestiva scenografia di Enrico Job. Le vecchie sedie da lui ammucchiate in casa Saporito, dove insieme ai due fratelli Alberto e Carlo vive zi’ Nicola, l’unico che sappia veramente comunicare ma che non parla se non sparando fuochi d’artificio o marcando i falsi con lo sputo, queste vecchie sedie appunto, sono tra le immagini più importanti della commedia. Ridotte a materiale di scarto in attesa di essere venduto, stanno a indicare che anche nelle famiglie più “normali” non c’è più l’abitudine di parlarsi, di comunicare e crescere insieme, di stare attorno a un tavolo. La sedia è diventata un oggetto inutile, vecchio e di cui sbarazzarsi, mentre i personaggi camminano in preda all’ansia e al sospetto, difendendosi con affanno e lanciando accuse. “Assassini”, dirà loro Alberto Saporito. Assassini perché pur non avendo ucciso nessuno vi siete comportati come se lo aveste fatto, cercando l’isolamento invece dell’aggregazione. Costruita su irresistibili trovate comiche, Le voci di dentro è una commedia profetica. Ridiamo e riflettiamo. O meglio: ridiamo tanto, dovremmo riflettere di più.

Venerdì 23 novembre: Arancia meccanica (Stanley Kubrick)

Amo molto il Kursaal, quando ci entro mi dà una piacevole sensazione di intimità e calore, con quelle vecchie poltrone morbide e leggermente inclinate di velluto beige. Quando mi ci siedo nell’attesa che cominci il film, girato verso l’entrata per vedere chi arriva (un piacere di cui non mi voglio privare mai), è come se tornassi a casa dopo una lunga giornata di lavoro passata in piedi. Ecco perché al Kursaal arrivo sempre un po’ in anticipo: specialmente ieri sera. L’occasione era ghiotta. Un gruppo di lungimiranti studenti ed esperti di cinema ha organizzato una rassegna sugli anni Settanta (www.sentierinelcinema.it) e a inaugurarla proprio il film di Kubrick, in versione restaurata. Ero minorenne quando lo vidi la prima volta. Non al cinema, ma da un amico di Bergamo che possedeva centinaia di videocassette duplicate. Lo vidi e non lo capii. Mi ero fermato alla violenza e alla forza significante delle immagini. Eppure avevo già in qualche modo percepito segni di grandezza. La grandezza di un’opera che riesce ad essere impressionante e attuale anche dopo quasi quarant’anni: si parla di libero arbitrio, violenza, politica e futuro senza che un solo argomento di questi rimanga ancorato al passato. Un altro che ci riesciva sempre era Dostoevskij. Comunque vedere Arancia meccanica per la sesta volta, ma la prima sul grande schermo, mi ha dato sensazioni nuove, ad esempio quella di guardare un capolavoro insieme a centinaia di altre persone in estasi, in una sala piena e silenziosa, come nelle vere grandi occasioni. Insegnando una lingua, sono portato a consigliare sempre la visione di un film in lingua originale. Ma se lo facciamo con Arancia meccanica, perdiamo una straordinaria possibilità: i dialoghi italiani di Riccardo Aragno riflettono in modo non meno efficace dell’originale il gergo colorito e poetico di Alex e i suoi tre drugi, invenzioni linguistiche che Burgess stesso aveva costruito sul russo: “e tutti i più malenchi peli del mio intero plotto si drizzarono dall'emozione”. Quante altre parole russe ci sono? Sarà una bella cosa da verificare con i miei ragazzi. Sul film, pieno di colpi di genio, di eleganti raccordi tra arti diverse, di scene di atroce violenza accompagnate dalla Gazza ladra di Rossini, potrei scrivere per ore senza annoiarmi mai. Molto chorosho! Mi limito a ricordare uno dei tanti quadri in movimento che Kubrick dipinge: guardate quando Alex si ritrova chiuso in una camera in casa dello scrittore, costretto ad ascoltare Beethoven e quindi indotto a trovare nel suicidio l’unica via di uscita da quella tortura. Guardate come sono rappresentati lo scrittore, la guardia del corpo e i due ospiti intenti a godersi lo spettacolo della tortura. Io ci vedo tracce di Delvaux, Dix, Bacon. Ma forse, a vederlo la settima volta, si scende ancora più in profondo. Il buon vecchio Kubrick, un inesauribile genio.

17 novembre 2006: "2046" (Wong Kar-Wai)

Serata piovosa e fredda quella di ieri, ero così stanco che dopo cena non ho potuto fare altro che ripristinare una vecchia abitudine: il film in camera. Così, steso sul mio letto cigolante, ho acceso il portatile e ci ho messo dentro un dvd che l’ottimo Valerio mi aveva prestato molto tempo fa. Glielo restituirò con gratitudine, perché è stata un’esperienza particolare. Si trattava di “2046”, l’ultimo film di Wong Kar-Wai disponibile per il pubblico italiano, in attesa che esca nelle sale il suo nuovo lavoro, presentato a maggio al Festival di Cannes. Ho imparato a conoscere questo regista da poco tempo, a Bari. Stefano, infallibile cinefilo, mi aveva prestato “Hong Kong Express” e poi “In the mood for love”. Non ho avuto dubbi, si tratta di un orafo dello schermo. Quando vedi un suo film hai l’impressione che lui ci sia sempre, che non ti lasci mai, con i suoi tocchi di classe, i suoi esatti schizzi di stanze segrete e mani che sfiorano un muro sotto la pioggia. Wong Kar Wai è come un direttore d’orchestra che guarda il pubblico girando le spalle ai musicisti. Musicisti eccellenti. Lui cerca te, spettatore, ti sorride e poi scompare dietro le tende e i separé delle case di una Hong-Kong anni Sessanta. Lascia tracce indelebili però, evoca scene che hai dimenticato perché non hai pazienza, perché nella fretta della tua vita non ripensi alle cose che hai vissuto. Lui, orientale, torna a ricordarti tutto con i suoi leitmotiv. Sublimi brani musicali e suggestive arie d’opera, scene di giunzione all’inizio e alla fine del film, luoghi e oggetti, eleganti metonimie (valga per tutte il guanto della “vedova nera”) che generano personaggi: guanti, banconote, gonne, carte da gioco, apparecchi radio e soprattutto porte, ringhiere e scale. Come quella che conduce alla pensione in cui abita lo scrittore Chow Mo Wan. Generoso dongiovanni, trascorre nella camera 2046 le sue ore liete con Su, l’unica donna che ha veramente amato tra tutte quelle, bellissime, che ricorda e ci racconta. Intanto però pensa al romanzo che sta scrivendo e che ha lo stesso titolo del film. Lo immagina come un viaggio nel futuro, in cui si vivono, rispetto al presente, analoghe situazioni, nel cui mondo di robot e treni velocissimi compaiono anche gli stessi personaggi, ma da cui non si torna più indietro. Lo fa solo il narratore, protagonista e regista. Un messaggio radio alla fine del film ci fa capire che questo 2046 è una metafora sul destino politico di Hong-Kong, pericolosamente stretto tra Cina e Inghilterra. Ma a noi piace pensare alla microstoria, ai Chow Mo Wan, alle sue donne, alle camere, le bische, i ristoranti di questa bellissima Hong-Kong, ai lampioni e le strade che nemmeno la grande storia, ci sussurra Kar-Wai, potrà cancellare.

15.11.2007: Ai confini del paradiso (Fatih Akim)

Non perdete questo film. C'è qualcosa di nuovo nel cinema di questo regista turco. C'è la straordinaria Turchia, che noi immaginiamo come un luogo lontano, nello spazio e nella storia, con i palazzi fatiscenti e la difficile quotidianità di Istambul, ma che Akim ci trasmette con rinnovati presagi, nel momento in cui essa si approssima agli orizzonti politici e filosofici dell'Europa. Lo fa ambientando le sue storie tra Turchia e Germania, dove vive attualmente la più grande colonia di emigrati turchi. D'altra parte il suo precedente film, "La sposa turca", bellissimo, si svolgeva proprio in Germania e aveva come protagonisti due turchi. Quest'altro ne riprende alcuni temi: il delitto involontario e il castigo che fortifica, l'amore irrealizzato, le leggi del caso, il ritorno ai luoghi natii. La morte di due donne cambia i destini dei personaggi che hanno con loro i più intensi legami e intreccia tutte le loro storie nel quadro di una circolarità narrativa gestita molto bene dal regista: un anziano turco, vedovo ed emigrato a Brema, suo figlio che è professore universitario, poi una madre tedesca (Hanna Schygulla!) tollerante, apprensiva, raccontata nella difficoltà di gestire il suo rapporto con la figlia impulsiva. Un incontro decisivo porterà questa figlia a fare i conti col destino, trascinando tutti gli altri personaggi ad un punto di svolta, ad una soglia. Questa soglia è la spiaggia dell'ultima scena, "ai confini del paradiso", da cui il professore tornato in Turchia attende il padre.

11 novembre 2007: Paolo Panaro

Non potete perdervelo: quando in sala si fa buio, sale su un tavolo di legno al centro del palchetto allestito nella Chiesa della Vallisa, a Bari Vecchia. Attende che un faro illumini la sua figura e lo spazio limitato che si è scelto, poi comincia a narrare. Senza effetti. Solo qualche nota musicale di raccordo tra un capitolo e l’altro. Per un’ora e più. Stando sempre su quel tavolo. Mentre tu resti incollato alla sedia. Non avevo mai visto Paolo Panaro, ma ne sentivo parlare da un po’. E allora ho colto al volo l’invito della collega Valentina Ripa, saggia consigliera in fatto di teatro, e sono andato a vedere lo spettacolo che questo attore d’eccezione ha tratto dal romanzo Capatosta di Beppe Lopez. La storia di Iangiusand’, una donna animata da una testarda volontà e costretta per tutta la vita a scappare dalle disgrazie, storia ambientata nella Bari degli anni Trenta e Quaranta, trova nella voce e nel corpo di Panaro una concretezza penetrante. Lui ti fa vedere i personaggi. Sono tutti lì, nei suoi gesti, minimali ma più efficaci di una immensa fotografia a colori. Ecco Cilluzz’, il marito violento, ecco la zia mezzana, le comari invidiose, il figlio che la vede morire nella miseria che lei si è scelta per scappare da quella madre che non l’ha mai amata. Il tutto narrato con innesti di barese popolare, colorito e divertente, fruibile anche ai forestieri come me. Bello quando il teatro ti fulmina con una voce, pochi gesti, senza fronzoli, andando a solleticare uno dei piaceri fondamentali della vita: quello di “sentire” delle storie. Panaro te le sa narrare.

10 novembre 2007: Gravina

Trovo che Gravina sia un posto splendido, c’ero andato da solo in un caldo pomeriggio estivo pochi mesi dopo il mio trasferimento a Bari. Mi era rimasta l’impressione di un luogo affascinante, in qualche modo selvaggio, costruito su un fantasioso disordine, su una discontinuità impressa come un marchio. Hai l’impressione, a Gravina, che l’uomo abbia cominciato a costruire, ma poi si sia lasciato sopraffare dalla forza della natura e non l’abbia più disturbata per anni. Ora che ci sono tornato con alcuni cari amici, ho percepito soprattutto l’importanza dell’acqua. Scorre nei cunicoli delle antiche grotte, è stata incanalata nell’acquedotto del ponte, ha modellato il tufo aiutando l’uomo a costruire dei capolavori, evoca gli spiriti benigni, ricorda lo scorrere della vita. Eppure la morte incombe con i suoi simboli su questo posto magico. Se guardata dall’alto, ci assicura la nostra guida, Gravina sembrerebbe assumere le sembianze di un teschio, mentre per tutta la città sono disseminati i simboli della morte: sotto il crocifisso nelle rappresentazioni sacre, sopra le case che venivano sequestrate dalle confraternite per il non pagamento dei pegni, all’ingresso dalla Chiesa di Santa Maria del Suffragio (o Chiesa del Purgatorio), e nella Chiesa di Santa Croce, posta sotto la cattedrale. Antonella, Francesca e Stefania, compagne gravinesi di lunghe conversazioni nella “cucina” di via Putignani, ci hanno anche portato a mangiare da Zia Rosa: tra prelibati antipasti a base di funghi e legumi, sorsi di Verdeca, vari assaggi di orecchiette, squisiti sasanelli e licenziose barzellette del proprietario, ci siamo armati contro il vento che sembrava volerci portare via. Sul treno per tornare a Bari, sui sedili verdi, al caldo dei vagoni delle FAL, di nuovo quel senso di raccoglimento e stanchezza rigenerante.

Lo spettacolo "Le notti bianche"

Dunque, ci siamo andati. Io, i proff. Perillo, Ripa, Moliterni e altri. Ma soprattutto tanti studenti di russo. Che piacere! L'allestimento era molto carino, c'erano le cose giuste: il ponte di Pietroburgo, la panchina del sognatore, il lampione. Peccato che a teatro ci vadano anche i maleducati, che pensano di poter urlare agli attori di alzare la voce come se fossimo al karaoke... Simona è stata bravissima, secondo me più convincente del suo collega, ma anche lui ha lavorato molto bene sul personaggio: il sognatore russo un po' passivo, vulnerabile, partecipe della felicità altrui perché egli stesso non riesce a realizzarne una che non sia quella delle sue reveries. Nasten'ka era luminosa, ironica, affascinante, forse un po' meno russa di quella del racconto di Dostoevskij, che invece mi pare più discreta e timida, dimessa, più fanciulla. Un'ottima interpretazione, tuttavia, anche se Simona stessa non credeva ai nostri complimenti. Era per qualche motivo contrariata per come era andato lo spettacolo. Ma si sa, gli attori sono molto perfezionisti. Dopo lo spettacolo sono andato con alcuni studenti a bere qualcosa al "Tadadatà", Bari Vecchia. E' il tipo di posto che piace a me, tavoli tutti diversi, luci soffuse, gente simpatica, cordialità. Il buon Michele Traversa, che conosce quasiasi posto in qualsiasi angolo di Bari, si è fatto portare una bottiglia di Negramaro. E abbiamo parlato, riso, ascoltato mentre fuori pioveva, in quell'atmosfera piacevolmente sospesa che si costruisce solo in certi posti, in certi momenti, con certe persone. Come nelle notti bianche...

Simona Mastroianni dopo l'incontro con gli studenti

L'incontro è stato bellissimo. Simona è una ragazza molto carina e alla mano, mi è piaciuta moltissimo soprattutto quella sua timidezza davanti a tutti gli studenti di russo. Ci ha parlato della Russia, del teatro, di Dostoevskij, della sua laurea in lettere, sembrava che con noi fosse molto a suo agio. Penso che un'esperienza del genere sia servita molto ai ragazzi, a volte gli attori di teatro sembrano sempre vivere in un'altra dimensione, quasi che ti convincessero che non puoi capirli, invece Simona Mastroianni sembrava più una spettatrice, mentre parlava avevo la sensazione che fosse una studentessa di russo. Domani andrò a vedere lo spettacolo, sono molto curioso di vederla all'opera.

Simona Mastroianni

Oggi viene a fare visita alla Facoltà l'attrice Simona Mastroianni, che domani andrà in scena qui a Bari con uno spettacolo tratto dalle "Notti bianche" di Dostoevskij. Ha espresso il desiderio di incontrare gli studenti di russo. Sarà interessante vedere quanto c'è in lei del personaggio di Nasten'ka. Non ho preparato le domande, vorrei che si sentisse libera di raccontarsi: di lei, del suo lavoro, della Russia, della letteratura.