A Francesco, Giuseppe, Stefano, Valerio
Ho provato dolore, un forte dolore fisico nell’andarmene da casa Br., prendendo le ultime cose mentre voi mi guardavate increduli. Ieri trascinavo la mia valigia per il quartiere Libertà in lacrime, con un nodo in gola, riportandomi dietro le parole di gratitudine e affetto che non vi ho mai detto. Ci provo ora. Nella mia valigia che rotolava per l’ultima volta sul marciapiede di via Putignani, c’erano: il mio piatto bianco quadrato, i vassoi in plastica, il tappeto colorato, la spugna verde per la doccia, l’oliera, il filtro per la tisana, il pentolino per scaldare l’acqua, i miei strofinacci, il piccolo televisore arancione con l’antenna scocciata (mi perdonerete mai per averlo rotto?), le bellissime conversazioni su cinema e letteratura con Stefano e il suo garbo esemplare, il buongiorno urlato di Dj Vale e la sua magica padella antiaderente, la suoneria del cellulare di Don Giuseppe e la sua “rocciosa” felpa viola, la console dell’avvocato e la sua affascinante loquela forense. Se mi dovessero chiedere cosa sia la nostalgia, ora risponderei che è il momento in cui mi sono reso conto che non vedo più queste cose; se mi chiedessero che cosa sia l’affetto, penserei a chi mi circondava con queste cose; se mi chiedessero cosa sia la felicità, penserei a queste cose. Grazie di tutto, ragazzi, quando sono arrivato a Bari non avevo nessuno: in questi due anni siete stati la mia famiglia. Non cambiate mai.
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