Da un treno

Sul terzo binario il treno sta per partire. Un ragazzo con gli occhiali guarda fuori dall’interno del suo scompartimento. Ha appena posato la valigia sulla mensola che sta sopra i sedili, si è guardato intorno: nello scompartimento, oltre a un insopportabile odore di disinfettante, c’è un profumo di arancio. E poi silenzio. Solo un altro uomo: un anziano con una giacca di velluto vecchia e una camicia beige, che sta maneggiando una piccola radio con delle cuffie nere. Ha baffi bianchi, la barba del giorno prima, da lui arriva un odore non gradevole, ma intimo, di casa, forse dato dai vestiti, forse dalle sue mani callose e ingiallite dalla buccia d’arancia. Il ragazzo non lo guarda: dalla valigia ha estratto un libro, lo poggia sul sedile e si accomoda accanto al finestrino. Sta ripartendo per il nord, ha trascorso due giorni in una piccola città sul mare, in compagnia di una donna che non ama. Si incontrano tutti i mesi in una città diversa, lei lo aspetta alla stazione e lo accompagna al treno il giorno dopo, aspettando il successivo che parte per la sua città: non vuole perdersi un solo minuto della sua presenza. Cerca sempre di sorridere, ma ha un volto mesto, è tesa, lo guarda di continuo, rapita e innamorata, ma non si sente accettata: nella camera d’albergo, sotto le coperte, i due si sussurrano parole che sembrano vere, con lacrime femminili di dolore per una verità celata. Lei lo ringrazia, non dice mai di no. Poi di sera escono dalla camera, cenano in sonnacchiose trattorie, vanno a passeggiare, lui parla liberamente, guarda altre ragazze senza pensare a come si senta lei. Né lei, che percepisce di non essere piacente, si sente di rimproverarlo per questo. Vorrebbe, ma teme di provocare il suo fastidio, di sentirsi disarmata se lui le dice: “E perché non dovrei farlo? Non siamo mica insieme”. Ora lui è sul treno, l’odore di buccia d’arancia si fa ancora più denso: pensa a quando era piccolo e l’anziana dirimpettaia lo chiamava il pomeriggio alle due, sotto un sole battente lo invitava in quella vecchia casa che lui non amava, lo faceva sedere in quella cucina molto piccola e gli sbucciava un’arancia. Lo spruzzo che partiva dalla buccia e si diffondeva nell’aria mescolandosi alla polvere gli era sempre piaciuto. Poi gli regalava della liquirizia prima che andasse via, prendendola sempre da un vecchio barattolo in latta che stava sulla credenza della cucina. E prima di uscire, sulla soglia, mentre la vicina chiudeva il barattolo con la liquirizia, lui incontrava spesso quell’uomo simpatico con l’impermeabile blu: lo salutava sempre, ma lui non rispondeva. Ora, in quel treno, l’odore di arancia si mischia all’amarezza di una storia già finita. Fuori dal treno, sul binario, in piedi vicino alla panchina e alla macchina per timbrare i biglietti, lei guarda l’entrata del vagone. Piange, non ce la fa più a nascondersi. Lui la guarda, le fa un cenno di saluto. Ma lei non vuole guardarlo. Continua a piangere. Dignitosamente, guardando fissa la placca di metallo sul vagone sotto il primo finestrino e il simbolo della seconda classe. E mentre il treno parte lasciandosi dietro le lacrime di lei, improvvisamente appare una luce e lui, che ha guardato passare dal finestrino una ragazza che non si sentiva accettata, pensa per un attimo che non l’ha mai vista così bella come in quel momento. Questo lo so, perché anche io ero su quel treno.

In un bar

L’avvocato ha una cravatta azzurra, una camicia bianca sotto l’abito gessato, dei capelli grigi e leggermente mossi, una borsa di pelle nera in cui sono ordinate in apposite buste di plastica colorate un certo numero di pratiche. Usa piccole mollette a forma di animale per tenerle chiuse, le compra solo nei suoi viaggi all’estero. Una volta un magistrato gli ha chiesto il perché, ma lui non lo sapeva spiegare: ci ha pensato davanti a lui con lo sguardo spento, tanto che l’altro ha dovuto subito cambiare discorso per paura di averlo turbato. L’avvocato ha occhiali trasparenti, un sorriso ovvio e manifesto stampato sul volto olivastro. E’ alto, fuma una sigaretta fuori dal bar, mentre parla gesticola e ride, poi sorride e butta la sigaretta. Con garbo la spegne col piede, poi di fretta entra nel bar, seguito dai suoi colleghi e assistenti. E’ una buona giornata per l’avvocato, questa mattina la moglie non si è svegliata con lui, perché è ad Amsterdam per una causa e starà via per qualche giorno. Il risveglio senza di lei ha il sapore di un’avventura nuova. L’oroscopo delle sette e trentuno, sussurrato dalla radiosveglia, sembrerebbe favorevole: “cancro, una grande novità vi aspetta prima di mezzogiorno, ma dovrete riconoscerla”. Poi una telefonata che alle nove e diciassette lo distrae dai suoi impegni di lavoro, proprio mentre si appresta a dare un’ultima occhiata alla pratica della busta di plastica verde: “Ti prego, non abbandonarmi, sono tre giorni che non mangio. Sì, tre giorni che non mangio. Sai cosa vuol dire?” Ora sono le dieci, l’avvocato sorride, i suoi colleghi lo guardano ammirati. Lui si dice per un attimo che questo è bello, che è meglio ogni tanto non pensare alle cose che stanno in fondo al mare, che non bisogna cercarle, ma solo nuotare in superficie, sorridendo, senza mettere la testa in acqua. Non sa se è proprio questo che quel giorno cercava di dirgli l’uomo simpatico con l’impermeabile blu. Sono giorni che ci pensa. Ma la vita va avanti. Conta mentalmente fino a cinque, si carica, entra nel bar. Qui c’è una coppia che fa colazione, lui sta girando il suo cappuccino, lei sta ancora scegliendo il cornetto; poi c’è un uomo cupo, con i capelli neri a caschetto e una camicia a quadretti, che legge un quotidiano distrattamente, seduto vicino al frigorifero dei gelati; al tavolo vicino c’è una donna sola, molto bella, con un trucco pesante e delle scarpe nuove, che guarda l’orologio e sta per piangere; vicino al bancone c’è un uomo anziano estremamente elegante e profumato, legge la prima pagina del quotidiano e non ha fame. “Avvocato, buongiorno! Il solito per lei?” L’avvocato pensa che è ora di dare un “segno più” alla giornata. Poi ad alta voce, in modo che tutti nel bar sentano: “Ciao Michele. Dunque per me, un cappuccino. Ai miei amici fai ciò che vogliono, ma fallo un po’ meno buono di quello che fai a me. Hai capito? Il mio cappuccino deve essere un po’ più buono di quello dei miei amici”. Sorride. Si sente bellissimo. Questa frase anima tutti: gli amici ridono e non smettono di guardarlo ammirati, il ragazzo che girava il cappuccino guarda la ragazza e con un’espressione di intesa le sorride, la donna sola non piangerà, l’uomo seduto a leggere si gira e saluta l’avvocato con la mano, l’uomo elegante chiude il giornale per un attimo: guarda distrattamente le tazzine tutte ordinate, una sopra l’altra, sulla macchina del caffè, pensando che ci deve pur essere un motivo se sono tre giorni che sua figlia non mangia. Pensa proprio questo, io lo so. Perché anche io ero in quel bar.

In un castello

La principessa è stanca, stanchissima, gli occhi le si chiudono in continuazione, cerca di stare sveglia e appoggia la tazza alla guancia destra come se fosse un cuscino. Gli occhi aperti a fatica ancora le brillano, ma si chiudono subito dopo ogni sbadiglio. Si addormenta per un attimo, poi si desta, chiede scusa. Il re la osserva, con tenerezza, seduto di fronte a lei. C’è una rosa in un vaso di cristallo, sul tavolo, in mezzo a loro. C’è anche del cibo, poi del vino, una candela, un libro. “Mi racconti una storia prima che mi addormenti?”, chiede la principessa. Il re la porta nella camera, aspetta che lei da sola si metta sotto le coperte, lui le si siede accanto, afferra le coperte e le chiude sopra di lei, lasciando scoperto solo il viso. E mentre lei si sfrega i piedi per riscaldarli, lui comincia ad accarezzarla piano, sulla guancia, poi la fronte, sopra l’occhio, poi i capelli. La principessa è stanca, stanchissima. Il re le dice di non aver paura. C’è un lampadario sopra il letto, la luce è spenta, alcune farfalle volano nei paraggi. “Ora verranno”, dice il re. “Chi?”, chiede la principessa. “Verranno i tuoi piccoli arcieri, saliranno sul lampadario e getteranno una rete di cristallo. Per difenderti dagli spiriti della notte”. Il re guarda il lampadario, poi il viso della principessa, gli occhi chiusi. “Non devi aprirli, perché altrimenti gli arcieri non usciranno. Si vergognano di farsi vedere da te, perché sono umili. Tu non li vedi, ma loro ti difendono sempre”. La principessa sorride, gli occhi chiusi. Il re sussurra degli ordini agli arcieri, intorno alla camera, dice loro che dopo il suo bacio possono gettare la rete di cristallo. Dice loro di stare attenti, di non addormentarsi, di spaventare gli spiriti maligni se questi si affacciano. Perché la principessa deve dormire tranquilla, deve svegliarsi felice. Il mondo altrimenti ripiomberà nel disordine, la terra diventerà desolata. Il re bacia la principessa sulla fronte, gli arcieri gettano la rete di cristallo, la principessa già dorme. Serena. Gli spiriti maligni non verranno questa notte. Anche il re ora è stanco, ma torna vicino al tavolo. Guarda la rosa. Pensa che se quel giorno, tanto tempo prima, non avesse risposto all’uomo simpatico con l’impermeabile blu, la principessa non avrebbe mai sorriso. Guarda ancora la rosa. Non ci sono più i contorni. Il re appoggia la testa al muro e si lascia andare ai suoi pensieri. Ha gli occhi stanchi anche lui. Io l'ho visto, perché c'ero anche io in quel castello.