In un bar

L’avvocato ha una cravatta azzurra, una camicia bianca sotto l’abito gessato, dei capelli grigi e leggermente mossi, una borsa di pelle nera in cui sono ordinate in apposite buste di plastica colorate un certo numero di pratiche. Usa piccole mollette a forma di animale per tenerle chiuse, le compra solo nei suoi viaggi all’estero. Una volta un magistrato gli ha chiesto il perché, ma lui non lo sapeva spiegare: ci ha pensato davanti a lui con lo sguardo spento, tanto che l’altro ha dovuto subito cambiare discorso per paura di averlo turbato. L’avvocato ha occhiali trasparenti, un sorriso ovvio e manifesto stampato sul volto olivastro. E’ alto, fuma una sigaretta fuori dal bar, mentre parla gesticola e ride, poi sorride e butta la sigaretta. Con garbo la spegne col piede, poi di fretta entra nel bar, seguito dai suoi colleghi e assistenti. E’ una buona giornata per l’avvocato, questa mattina la moglie non si è svegliata con lui, perché è ad Amsterdam per una causa e starà via per qualche giorno. Il risveglio senza di lei ha il sapore di un’avventura nuova. L’oroscopo delle sette e trentuno, sussurrato dalla radiosveglia, sembrerebbe favorevole: “cancro, una grande novità vi aspetta prima di mezzogiorno, ma dovrete riconoscerla”. Poi una telefonata che alle nove e diciassette lo distrae dai suoi impegni di lavoro, proprio mentre si appresta a dare un’ultima occhiata alla pratica della busta di plastica verde: “Ti prego, non abbandonarmi, sono tre giorni che non mangio. Sì, tre giorni che non mangio. Sai cosa vuol dire?” Ora sono le dieci, l’avvocato sorride, i suoi colleghi lo guardano ammirati. Lui si dice per un attimo che questo è bello, che è meglio ogni tanto non pensare alle cose che stanno in fondo al mare, che non bisogna cercarle, ma solo nuotare in superficie, sorridendo, senza mettere la testa in acqua. Non sa se è proprio questo che quel giorno cercava di dirgli l’uomo simpatico con l’impermeabile blu. Sono giorni che ci pensa. Ma la vita va avanti. Conta mentalmente fino a cinque, si carica, entra nel bar. Qui c’è una coppia che fa colazione, lui sta girando il suo cappuccino, lei sta ancora scegliendo il cornetto; poi c’è un uomo cupo, con i capelli neri a caschetto e una camicia a quadretti, che legge un quotidiano distrattamente, seduto vicino al frigorifero dei gelati; al tavolo vicino c’è una donna sola, molto bella, con un trucco pesante e delle scarpe nuove, che guarda l’orologio e sta per piangere; vicino al bancone c’è un uomo anziano estremamente elegante e profumato, legge la prima pagina del quotidiano e non ha fame. “Avvocato, buongiorno! Il solito per lei?” L’avvocato pensa che è ora di dare un “segno più” alla giornata. Poi ad alta voce, in modo che tutti nel bar sentano: “Ciao Michele. Dunque per me, un cappuccino. Ai miei amici fai ciò che vogliono, ma fallo un po’ meno buono di quello che fai a me. Hai capito? Il mio cappuccino deve essere un po’ più buono di quello dei miei amici”. Sorride. Si sente bellissimo. Questa frase anima tutti: gli amici ridono e non smettono di guardarlo ammirati, il ragazzo che girava il cappuccino guarda la ragazza e con un’espressione di intesa le sorride, la donna sola non piangerà, l’uomo seduto a leggere si gira e saluta l’avvocato con la mano, l’uomo elegante chiude il giornale per un attimo: guarda distrattamente le tazzine tutte ordinate, una sopra l’altra, sulla macchina del caffè, pensando che ci deve pur essere un motivo se sono tre giorni che sua figlia non mangia. Pensa proprio questo, io lo so. Perché anche io ero in quel bar.

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