Palermo shooting (Wim Wenders)

L’ultimo suo film, Wim Wenders ha deciso di andarlo a girare a Palermo, richiamandone con grande stile gli angoli, i mercati, i cortili, le piazze affollate, le grida del popolo. “Palermo shooting” è un'opera molto strana ed evocativa, piena di spunti letterari e filosofici, il cui mistero non può certo sfuggire a chi conosce questo regista. E’ la storia di un artista tedesco, maestro del design, che in patria gode di grande successo (è tra l’altro il fotografo ufficiale di Milla Jovovič, che nel film compare nel ruolo di se stessa), ma che sente un vuoto dentro di sé. Il mondo frivolo del jet set, l’inconsistenza delle sue avventure di dongiovanni, una certa tendenza alla malinconia e alla solitudine lo spingono a intraprendere un’esperienza, inizialmente di lavoro, a Palermo. Ma oltre al fascino della città siciliana, a trattenerlo qui è una catena di misteriosi incontri con un uomo incappucciato e tutto vestito di bianco, che lo sorprende con dei dardi di cui solo alla fine comprendiamo il significato: “la morte è una freccia scoccata dal futuro”, dice infatti questo fantasma dal volto di Dennis Hopper, quando incontra il protagonista in un’antica biblioteca simile alle prigioni di Piranesi. In effetti il designer e fotografo, tra le strade affollate di Palermo, aveva sorpreso la morte una prima volta con la telecamera, poi con la macchina fotografica dopo aver scansato una sua freccia. Flavia, una restauratrice interpretata da Giovanna Mezzogiorno che sta lavorando da due anni proprio a un antico affresco che rappresenta la morte, quindi l’unica a credere ai suoi vaneggiamenti, accompagna il fotografo sulla strada dell’uomo incappucciato. Il dialogo finale con la morte, che si scoprirà poi essere più preziosa di quanto si pensi, riprende in chiave moderna “Il settimo sigillo” bergmaniano, mentre la figura del viaggiatore in cerca di sensazioni ricorda John Malcovic a Portofino in un episodio di quel piccolo capolavoro che è “Par delà des nuages” di Antonioni. Una dedica importante a questi due grandi maestri, morti lo stesso giorno durante la lavorazione del film, li mette in relazione. Del tutto personale, invece, è la rielaborazione che Wenders fa del tema dell’immagine. In filosofia infatti, l’immagine è sempre legata alla morte, poiché è una rappresentazione che si sgancia dallo scorrere del tempo, non ha inizio né fine, non ha vita, ricorda l’ultima storia, la bellezza ma anche la catastrofe, è autoreferenziale. La fotografia è oggi l’immagine per antonomasia, spiega il bianco spirito Dennis Hopper, ma più di tutto ha rovinato quest’arte la comparsa del digitale, che toglie al negativo la concentrazione dell’artista, il fascino dell’invisibile, l’espressione delle ombre, ma anche il mistero del doppio: perdiamo col digitale la coscienza istantanea di essere sull’orlo di due realtà, tra le quali si oppongono forze speculari e forme rovesciate. Ora l’uomo dorme su letti giganteschi, ora si rannicchia su giacigli minuscoli, la forma e la mente non combaciano. Solo sfiorando la morte, oppure rifiutando di apprezzare la vita (il protagonista fa entrambe le esperienze), si può stare nell'aldiquà e nell'aldilà. Salvo poi conoscere e ritornare nel mondo. Come non farsi catturare da queste riflessioni e immagini sulla soglia di Wenders?

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