"Il divo" (Paolo Sorrentino)

Grande soddisfazione ho provato nel vedere il nuovo film di Sorrentino, che propone in una ricostruzione affascinante e ricca di raffinate pennellate da visionario del cinema, l’ultimo periodo della carriera di Giulio Andreotti, da quando ricevette l’incarico di formare il suo VII e ultimo Gabinetto fino ai giorni meno gloriosi dei processi che subì per l’incriminazione di mafia, all’inizio del nuovo secolo. Il glossario all’inizio del lungometraggio, le didascalie rosse e una narrazione asciutta dei fatti accaduti in questo ventennio, intrapresa senza lasciare sottintesi, rendono il lavoro particolarmente appetibile anche ai giovanissimi che hanno vissuto l’epoca di Andreotti solo per sentito dire. Il film però si concentra più che altro sulla sua figura di uomo, o meglio sugli slanci controllati, i sorrisi, gli amori irrealizzati, gli sguardi incuriositi che guizzano, rari e speciali, da questa grande figura di statista, tra le gelide parole della sua tagliente ironia. Come fa Sorrentino a darci il ritratto di un “uomo”, più che di un “politico”? Attribuisce a uno dei personaggi più potenti della nostra storia, a un indistruttibile, delle piccole debolezze e le trasforma in metafore continuate all’interno del testo cinematografico: Andreotti è ad esempio tormentato da un continuo mal di testa (come, ne sono sicuro, il Ponzio Pilato di Bulgakov), anela disperatamente, ma invano, alla reintroduzione di un farmaco che glielo possa alleviare, il Tedax, ma in assenza di questo beve continuamente aspirine. Ciò accade tutte le volte in cui deve ingoiare un boccone amaro, cancellarlo nel suo stomaco e non farlo trapelare: bella la scena in cui anche i membri della sua famiglia, nei giorni amari in cui si aprono i processi per mafia, seduti a un tavolo pasteggiano con una compressa sciolta nell’acqua. “Dobbiamo anche fare il male, per assicurare il bene del nostro popolo”, dice Giulio Andreotti nella scena in cui immagina di sfogarsi. Ed è l’unico momento di debolezza completa, un fiume in piena, immaginato come un monologo da palcoscenico, sotto i riflettori che non hanno tuttavia mai messo in imbarazzo questo uomo di ferro. La moglie, magistralmente interpretata da Anna Bonaiuti (ma non certo minore è la bravura di Servillo nell’impersonare il senatore), è l’unica che riesce a fare breccia nel “presidente del consiglio”, mentre tutti gli altri personaggi di cui si circonda, da Cirino Pomicino a Ciarrapico, non sono che “il concime di cui gli alberi hanno bisogno per crescere”. Scene memorabili: la corsa con scivolata di Cirino Pomicino, lo skateboard in transatlantico, la rappresentazione della morte di Falcone (lo stato è una macchina già distrutta, ancora prima di cadere), il bacio a Totò Riina, la telefonata alla moglie da Mosca. Mi è piaciuto pensare, uscendo dall’Odeon e parlando con Cinzia, Stefano e Jenny, che quando ero più giovane e non leggevo i giornali, ma pensavo e parlavo per slogan, Andreotti non aveva per me quel fascino (certo anche macabro) che questo film gli restituisce pienamente e che un po’ ci fa pensare al protagonista di un altro film di Sorrentino, le “Conseguenze dell’amore”.

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