11 novembre 2007: Paolo Panaro

Non potete perdervelo: quando in sala si fa buio, sale su un tavolo di legno al centro del palchetto allestito nella Chiesa della Vallisa, a Bari Vecchia. Attende che un faro illumini la sua figura e lo spazio limitato che si è scelto, poi comincia a narrare. Senza effetti. Solo qualche nota musicale di raccordo tra un capitolo e l’altro. Per un’ora e più. Stando sempre su quel tavolo. Mentre tu resti incollato alla sedia. Non avevo mai visto Paolo Panaro, ma ne sentivo parlare da un po’. E allora ho colto al volo l’invito della collega Valentina Ripa, saggia consigliera in fatto di teatro, e sono andato a vedere lo spettacolo che questo attore d’eccezione ha tratto dal romanzo Capatosta di Beppe Lopez. La storia di Iangiusand’, una donna animata da una testarda volontà e costretta per tutta la vita a scappare dalle disgrazie, storia ambientata nella Bari degli anni Trenta e Quaranta, trova nella voce e nel corpo di Panaro una concretezza penetrante. Lui ti fa vedere i personaggi. Sono tutti lì, nei suoi gesti, minimali ma più efficaci di una immensa fotografia a colori. Ecco Cilluzz’, il marito violento, ecco la zia mezzana, le comari invidiose, il figlio che la vede morire nella miseria che lei si è scelta per scappare da quella madre che non l’ha mai amata. Il tutto narrato con innesti di barese popolare, colorito e divertente, fruibile anche ai forestieri come me. Bello quando il teatro ti fulmina con una voce, pochi gesti, senza fronzoli, andando a solleticare uno dei piaceri fondamentali della vita: quello di “sentire” delle storie. Panaro te le sa narrare.

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