6 dicembre 2007: Eraserhead (David Lynch)
E’ uno dei miei registi preferiti. Ho imparato a conoscerlo dopo essermi appassionato alla serie di Twin Peaks, in cui tra i paesaggi del Montana, le camere con le alogene e i tavoli dei diner, si faceva spazio la maligna presenza degli spiriti dei boschi. Per vedere David Lynch bisogna accettare l’irruzione di cose strane nella tua realtà, cose che ti tengono sospeso tra un mondo che puoi capire e condividere e uno che porta all’invisibile, è fatto di sogni, evocazioni, voci e luci improvvise, in mezzo a un trionfo di rosso e viola. Il sipario, la porta e la tenda sono metafore molto comuni nel suo cinema: i protagonisti dei suoi film devono spesso risolvere misteri e alla fine del film il dubbio resta, perché sei riuscito a vedere le due dimensioni, ma non hai capito che cosa le fa comunicare, cosa c’è in mezzo, di cosa è fatta veramente la tenda che le divide. Come in Velluto blu, Mulholland Drive e sicuramente, eccedendo un po’ nello sperimentalismo, nel suo ultimo film, Inland Empire. Pochi artisti riescono secondo me a tenerti così a lungo nel mistero. Il suo primo lungometraggio, Eraserhead, forse è meno difficile da spiegare, ma ha un contenuto profetico. Sono andato a vederlo con Lina, Cinzia, Anna e Maria Rosaria, ma le avevo giustamente prevenute: lo fa anche il direttore della rassegna prima che inizi il film, invitandoci a tenere duro con lo stomaco. Quando Eraserhead uscì nelle sale nel 1975, fu infatti proibito alle gestanti e il motivo è chiaro: è la storia di un mondo industriale, grigio come il bianco e nero della pellicola, in cui il sole non splende mai e tutti vivremo come uomini inutili, integrati con pezzi di ferro (come il suocero del protagonista). Ci trascineremo da fabbriche dismesse a case squallide e vuote, in cui si annidano isteria e degrado. I nostri desideri saranno destinati a soffocare perché qualcuno agirà per noi (un uomo aziona le leve che simulano il momento della nostra procreazione), tutto ciò che faremo per perpetuarci è quindi destinato al fallimento. Il corpo si decompone, trionfa, raccapricciante, la morte fisica. Allora meglio evitare di guardare avanti, meglio vivere amori fugaci come quelli della vicina di casa. Il figlio del protagonista, un mostruoso verme tenuto in fasce e senza arti, ispira ribrezzo, ma anche pietà, con il suo lamento perpetuo. L’uomo, ci dice Lynch, si è distrutto da solo, si è inventato un mondo in cui realizzare i propri scopi materiali e ha sottomesso al suo volere anche la natura. Potrà mai riaversi? L’unica immagine felice del film è quella di una cagna che allatta i piccoli, mentre il protagonista cerca idealmente di fuggire la sua atroce condizione in un mondo di sogno: qui c’è luce, un palcoscenico con poltrone e tende (ricordate i sogni dell’ispettore Cooper?), una fanciulla deforme canta sorridente di un paradiso che verrà. Usciti dal cinema, ne abbiamo discusso molto, ma stretti nella “Suzuka” di Maria Rosaria e diretti alla croissanteria, abbiamo anche riso. E mentre per strada parlavamo dei simboli di Lynch, il freddo della notte di dicembre ci chiamava a casa.
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