10 novembre 2007: Gravina

Trovo che Gravina sia un posto splendido, c’ero andato da solo in un caldo pomeriggio estivo pochi mesi dopo il mio trasferimento a Bari. Mi era rimasta l’impressione di un luogo affascinante, in qualche modo selvaggio, costruito su un fantasioso disordine, su una discontinuità impressa come un marchio. Hai l’impressione, a Gravina, che l’uomo abbia cominciato a costruire, ma poi si sia lasciato sopraffare dalla forza della natura e non l’abbia più disturbata per anni. Ora che ci sono tornato con alcuni cari amici, ho percepito soprattutto l’importanza dell’acqua. Scorre nei cunicoli delle antiche grotte, è stata incanalata nell’acquedotto del ponte, ha modellato il tufo aiutando l’uomo a costruire dei capolavori, evoca gli spiriti benigni, ricorda lo scorrere della vita. Eppure la morte incombe con i suoi simboli su questo posto magico. Se guardata dall’alto, ci assicura la nostra guida, Gravina sembrerebbe assumere le sembianze di un teschio, mentre per tutta la città sono disseminati i simboli della morte: sotto il crocifisso nelle rappresentazioni sacre, sopra le case che venivano sequestrate dalle confraternite per il non pagamento dei pegni, all’ingresso dalla Chiesa di Santa Maria del Suffragio (o Chiesa del Purgatorio), e nella Chiesa di Santa Croce, posta sotto la cattedrale. Antonella, Francesca e Stefania, compagne gravinesi di lunghe conversazioni nella “cucina” di via Putignani, ci hanno anche portato a mangiare da Zia Rosa: tra prelibati antipasti a base di funghi e legumi, sorsi di Verdeca, vari assaggi di orecchiette, squisiti sasanelli e licenziose barzellette del proprietario, ci siamo armati contro il vento che sembrava volerci portare via. Sul treno per tornare a Bari, sui sedili verdi, al caldo dei vagoni delle FAL, di nuovo quel senso di raccoglimento e stanchezza rigenerante.

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