In un'edicola
Il venditore di giornali è seduto all’interno del suo chiosco e si gode un inizio di calura estiva. Non c’è nessuno per strada, ma lui ha voglia di parlare, porta un vecchio maglione verde, forse fa troppo caldo, ma non vuole toglierlo. Vuole stare seduto. E basta. Pensa a sua figlia, scontrosa, che non è andata a scuola, alle sigarette che ha visto nella sua borsetta. Al fatto che forse gliele ha fatte vedere apposta, per indurlo a una reazione, a sgridarla. Al fatto che lui non sa sgridarla. Pensa alla moglie che ultimamente non è più mattiniera, che ha voglia di rimanere a letto, che fa finta di dormire, ma in realtà si prepara a desiderare cose nuove, mentre lui si veste per uscire prestissimo, all’alba. E apre il chiosco, quando la luna non è ancora scomparsa e i lembi di plastica dei cestini dell’immondizia sbattono al vento. Ora sono le due del pomeriggio, si sentono dalle finestre delle case i rumori delle posate che urtano sui piatti. Il venditore di giornali vuole stare seduto. E basta. In quest’edicola di un’antica città del sud, non lontano da una piccola stazione ferroviaria, entra una donna vestita di bianco. Dietro c’è un uomo. Lei è bellissima. Lunghi capelli lisci, neri, semplici ma molto curati. Ha un braccio ingessato, il destro, lo porta appeso a un elegante foulard viola che le scende legato al collo. Gli occhiali da sole posati sulla fronte scoprono uno sguardo caldo, un sorriso sereno. Il suo profumo leggerissimo, che non invade ma colpisce, si spande tra i quotidiani e le riviste di enigmistica. Il venditore la guarda. Il suo sguardo non può essere discreto, perché tra poco quella donna se ne andrà, lui non la rivedrà più, non vuole perdersi nemmeno un secondo della sua presenza. L’uomo è dietro, ha un abbigliamento sportivo, occhiali da vista che ha appena tolto per leggere meglio la copertina di un libro. Ha il viso un po’ contratto, è distratto, mentre legge il titolo di quel romanzo, pensa all’uomo alto che ha visto il giorno prima, ubriaco, con un mazzo di fiori stretto nella destra tremante, pensa alla storia che gli ha raccontato. Lei si gira verso di lui, lo sfiora con la mano sinistra, lo chiama perché gli vuole mostrare delle cartoline: “Compriamone una, la inviamo a mia sorella”. Il venditore vede quel gesto con la mano e si anima. Sorride per un attimo. Vorrebbe forse essere altrove, pensa che se tanti anni prima avesse risposto in maniera diversa a quell’uomo simpatico con l’impermeabile blu, la sua vita sarebbe ora diversa, non tra pareti di carta, in attesa di un fuoco nuovo. L’uomo si avvicina per pagare, mostra la cartolina: “Quanto le devo per questa?”. “Venti centesimi… No aspetti, questi sono cinquanta”. “Ah, mi scusi”, dice l’uomo, “sono un po’ distratto”. Il venditore gli sorride, sceglie il momento giusto: “Lei è troppo innamorato!”. La donna, che intanto guardava altre cartoline, si gira subito verso di lui, sorride e lo guarda con gentilezza, poi, voltandosi verso l’uomo, lo prende ancora per mano, vorrebbe abbracciarlo, ma con il braccio ingessato è difficile. Allora si appoggia con la testa a lui, che piega un angolo della bocca e dice all’edicolante: “Lei ha ragione. Lei ha proprio ragione”. In quel momento vidi gli occhi del venditore farsi leggermente lucidi. Solo leggermente. Sì, perché anche io ero lì, in quell’edicola. E ho visto tutto.
In una casa
“Scrivi solo cazzate! L’ho sempre pensato, ma non te l’ho mai detto. Perché credevo di amarti”. Lo dice furente, arrabbiata, delusa. Non riesce più a trattenersi. Lui è arrivato con un mazzo di fiori, in bocca un retrogusto di vino, fa finta di essere felice, è volenteroso. Dieci minuti prima lei si stava guardando allo specchio, vicino all’ingresso dell’appartamento. Da quando non lo ama più, la gentilezza di lui si trasforma in sgarbo, le sue carezze in schiaffi, i baci in morsi, i fiori in pezzi di plastica colorati con il sangue. “Scrivi solo cazzate! L’ho sempre pensato, ma non te l’ho mai detto. Perché credevo di amarti”. Lui percepisce queste parole come sorsi di veleno, gli fa male il fegato da alcuni giorni, ha smesso di mangiare perché lei è fredda, ha smesso di fare ricerche e scrivere perché non ha voglia di stare meglio, perché ha solo bisogno di lei. Ora è sudato, ha corso in fretta le scale per arrivare in tempo. Perché i fiori non possono aspettare. Lei non piange mentre gli sputa veleno addosso, lui vorrebbe, ripensa a una prima volta. Era in un grande atrio, in un’università nuova, in Oriente: alcuni colleghi si avvicinano a lui, vedendolo arrivare. Una vecchia professoressa che non lo conosce è tra questi, lo chiama mentre lui gira lo zucchero in un bicchiere di tè: “Così giovane e già così bravo”. Avrebbe pianto nel bagno della facoltà dieci minuti dopo, ripensando a come tutte le frustrazioni del passato si possano trasformare in momenti di luce fulminante. Ora però, tra le mura di quell’appartamento, tutto è diverso: “Scrivi solo cazzate! L’ho sempre pensato, ma non te l’ho mai detto. Perché credevo di amarti”. Smette di sudare, di parlare, è alto uno e novanta, in quel momento si stupisce di pensare una cosa stupida: “chissà se le lacrime di un uomo alto come me sono più grandi di quelle di un uomo di altezza normale”. Poi mette i fiori sul tavolo, lei è girata verso i pensili bianchi della cucina. Fuma. Lui, senza guardarla, si volta, tiene la testa chinata, va verso la porta. Ma non esiste una porta. Non esistono le mura. Non esiste più niente di solido. Per lui è solo il vuoto. Questo lo so. Perché c’ero anche io quel giorno. E ho visto tutto.
A Francesco, Giuseppe, Stefano, Valerio
Ho provato dolore, un forte dolore fisico nell’andarmene da casa Br., prendendo le ultime cose mentre voi mi guardavate increduli. Ieri trascinavo la mia valigia per il quartiere Libertà in lacrime, con un nodo in gola, riportandomi dietro le parole di gratitudine e affetto che non vi ho mai detto. Ci provo ora. Nella mia valigia che rotolava per l’ultima volta sul marciapiede di via Putignani, c’erano: il mio piatto bianco quadrato, i vassoi in plastica, il tappeto colorato, la spugna verde per la doccia, l’oliera, il filtro per la tisana, il pentolino per scaldare l’acqua, i miei strofinacci, il piccolo televisore arancione con l’antenna scocciata (mi perdonerete mai per averlo rotto?), le bellissime conversazioni su cinema e letteratura con Stefano e il suo garbo esemplare, il buongiorno urlato di Dj Vale e la sua magica padella antiaderente, la suoneria del cellulare di Don Giuseppe e la sua “rocciosa” felpa viola, la console dell’avvocato e la sua affascinante loquela forense. Se mi dovessero chiedere cosa sia la nostalgia, ora risponderei che è il momento in cui mi sono reso conto che non vedo più queste cose; se mi chiedessero che cosa sia l’affetto, penserei a chi mi circondava con queste cose; se mi chiedessero cosa sia la felicità, penserei a queste cose. Grazie di tutto, ragazzi, quando sono arrivato a Bari non avevo nessuno: in questi due anni siete stati la mia famiglia. Non cambiate mai.
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