Martedì 18 dicembre 2007: la rotativa della Gazzetta del Mezzogiorno
Pur essendo uno che cerca di organizzarsi sempre prima, sono convinto che le cose decise all’ultimo momento siano sempre le migliori. Sì, perché quando decidi all’ultimo, hai ancora l’ebbrezza del dubbio, non sai cosa sarà, non sei preparato, per cui una cosa gradita che ti capita senza che tu l’abbia prevista diventa Bella con la b maiuscola. E così, mentre stai andando allo spettacolo per il quale ti sei organizzato, spunta, graditissimo e decisivo, il Traversa, che prende me e Cinzia sotto la sua egida e ci porta alla chiesa della Vallisa: è in programma uno spettacolo di cori Spirituals. Piacevole esperienza. Il gruppo si esibisce con trasporto, invoglia gli spettatori a cantare, rievoca le melodie più famose di questi bellissimi canti, differenti dal gospel perché spontanei, improvvisati, quindi più volti all’espressione dell’umore, della passione, della personalità creativa. Al ristorante greco di Bari Vecchia c’è una cameriera simpatica, siamo tre diversissimi individui (elegante mise color castagna per Cinzia, foulard arcobaleno per Michele, divisa universitaria per me) e ci sembra di essere attesi da secoli: ci regalano birre, sorrisi e un piattino ellenico. La moussaka è molto buona, ma il dolce, lo prendiamo da Fanelli, in via Re David: d’altra parte il cornetto a fine serata è un “must” da quando sono a Bari. Ed è a questo punto che il Traversa fabbrica un’idea geniale col suo macinino delle meraviglie. Redazione della Gazzetta del Mezzogiorno, dove lui lavora: “Avete mai visto come si stampano i giornali?” Alle elementari mi avevano portato una volta a vedere la stampa dell’Eco di Bergamo. Ero il più basso tra i miei compagni, un signore imponente ci mostrava questi carrelli giganteschi dove si ammassavano le copie in stampa del quotidiano locale, io ero quasi intimorito dai rumori, le cinghie con i giornali, l’odore della carta e dell’inchiostro. Ci avevano regalato una copia dell’Eco e ricordo che l’avevo conservata a lungo come se fosse stata un pezzo da collezione. Venticinque anni dopo, rivedere una rotativa in azione, assistere alla produzione delle lastre, alla formazione del colore, alla stampa velocissima di un quotidiano che scorre su rulli pittoreschi prima di essere distribuito in tutto il sud, mi ha dato nuove cose. Soprattutto ho pensato che mentre dormo, proprio mentre io dormo, la notte, c’è un’Italia che lavora, un’Italia fatta di giornalisti, guardiani, operai e segretarie, inseguiti da fischi e sirene sotto le stelle, mentre l’autista di un furgoncino aspetta che si riempia il vano del suo mezzo per andare a distribuire il giornale alle edicole. Io sbadiglio, loro hanno appena cominciato. Dormiranno, spero, mentre io compro il giornale al chiosco, oppure lo leggo ordinando un espressino prima di entrare in università. Sì, perché una volta qualcuno mi ha detto: “tu devi capire una cosa, ora che sei a Bari: la Gazzetta del Mezzogiorno non si compra, ma si legge al bar”.
6 dicembre 2007: Eraserhead (David Lynch)
E’ uno dei miei registi preferiti. Ho imparato a conoscerlo dopo essermi appassionato alla serie di Twin Peaks, in cui tra i paesaggi del Montana, le camere con le alogene e i tavoli dei diner, si faceva spazio la maligna presenza degli spiriti dei boschi. Per vedere David Lynch bisogna accettare l’irruzione di cose strane nella tua realtà, cose che ti tengono sospeso tra un mondo che puoi capire e condividere e uno che porta all’invisibile, è fatto di sogni, evocazioni, voci e luci improvvise, in mezzo a un trionfo di rosso e viola. Il sipario, la porta e la tenda sono metafore molto comuni nel suo cinema: i protagonisti dei suoi film devono spesso risolvere misteri e alla fine del film il dubbio resta, perché sei riuscito a vedere le due dimensioni, ma non hai capito che cosa le fa comunicare, cosa c’è in mezzo, di cosa è fatta veramente la tenda che le divide. Come in Velluto blu, Mulholland Drive e sicuramente, eccedendo un po’ nello sperimentalismo, nel suo ultimo film, Inland Empire. Pochi artisti riescono secondo me a tenerti così a lungo nel mistero. Il suo primo lungometraggio, Eraserhead, forse è meno difficile da spiegare, ma ha un contenuto profetico. Sono andato a vederlo con Lina, Cinzia, Anna e Maria Rosaria, ma le avevo giustamente prevenute: lo fa anche il direttore della rassegna prima che inizi il film, invitandoci a tenere duro con lo stomaco. Quando Eraserhead uscì nelle sale nel 1975, fu infatti proibito alle gestanti e il motivo è chiaro: è la storia di un mondo industriale, grigio come il bianco e nero della pellicola, in cui il sole non splende mai e tutti vivremo come uomini inutili, integrati con pezzi di ferro (come il suocero del protagonista). Ci trascineremo da fabbriche dismesse a case squallide e vuote, in cui si annidano isteria e degrado. I nostri desideri saranno destinati a soffocare perché qualcuno agirà per noi (un uomo aziona le leve che simulano il momento della nostra procreazione), tutto ciò che faremo per perpetuarci è quindi destinato al fallimento. Il corpo si decompone, trionfa, raccapricciante, la morte fisica. Allora meglio evitare di guardare avanti, meglio vivere amori fugaci come quelli della vicina di casa. Il figlio del protagonista, un mostruoso verme tenuto in fasce e senza arti, ispira ribrezzo, ma anche pietà, con il suo lamento perpetuo. L’uomo, ci dice Lynch, si è distrutto da solo, si è inventato un mondo in cui realizzare i propri scopi materiali e ha sottomesso al suo volere anche la natura. Potrà mai riaversi? L’unica immagine felice del film è quella di una cagna che allatta i piccoli, mentre il protagonista cerca idealmente di fuggire la sua atroce condizione in un mondo di sogno: qui c’è luce, un palcoscenico con poltrone e tende (ricordate i sogni dell’ispettore Cooper?), una fanciulla deforme canta sorridente di un paradiso che verrà. Usciti dal cinema, ne abbiamo discusso molto, ma stretti nella “Suzuka” di Maria Rosaria e diretti alla croissanteria, abbiamo anche riso. E mentre per strada parlavamo dei simboli di Lynch, il freddo della notte di dicembre ci chiamava a casa.
01.12.2007: Per vie traverse. Una passeggiata a Pietroburgo
Siete mai stati in una radio? Non avete idea, se la risposta è no, di quanto sia interessante: armadi pieni di dischi e cd, piccole stanze insonorizzate con microfoni che piombano dal soffitto, simpatici tecnici del suono che ti fanno segni e correggono i tuoi indugi nel parlare. Io non avevo mai provato questa esperienza, eppure quella del dj è una figura che mi ha sempre interessato. Avrei anche voluto farlo, ma poi il destino, invece che davanti a un microfono, mi ha portato (e ne sono orgoglioso) davanti a una lavagna e a tanti studenti. Della radio, o almeno delle radio che io ascolto, mi piace l’entusiasmo sincero di chi ci lavora, la genuinità delle loro intenzioni, la spontaneità del linguaggio, il gioco di immaginazione delle fattezze del dj al solo sentirne la voce. E poi la musica, che in televisione ormai è diventata solamente un noioso, ripetitivo contrappunto a gente che urla, si insulta, si spoglia, si vende e dietro le quinte, per aver fatto questo, ritira assegni milionari. Comunque, in radio ci sono andato per la prima volta due settimane fa, a parlare di Pietroburgo su gentile invito di Michele Traversa, puntuale giornalista e fotografo, cercatore di attimi magici in terre lontane e vicine, animatore incallito della contemporaneità barese. Se abitate qui, è improbabile che non lo conosciate. Conduce su “L’altra radio” (www.laltraradio.it) un programma chiamato “Per vie traverse” (proprio come il suo libro di viaggi pubblicato da Stilo), in cui chiacchiera di paesi lontani con chi li conosce. Non vuole tuttavia che si parli solo delle cose che il giovane turista vorrebbe leggere sui cataloghi dei tour operator. Vuole che l’ascoltatore possa chiudere gli occhi, magari ascoltando una canzone in tema oppure i versi di un poeta, e si ritrovi a passeggiare sulla Prospettiva Nevskij, osservi i marciapiedi, i segnali stradali, i portoni dei palazzi, il naso delle persone che ci stanno camminando, se non l’hanno già perso come nel racconto di Gogol’. Oppure, sfidando le raffiche di vento gelato, vuole che incontri Stravinskij, come nella canzone di Battiato. Io mi sono divertito molto a parlare di Pietroburgo, la trasmissione è andata in onda oggi, ma se volete passeggiare per le vie di Pietroburgo potete ispirarvi entrando nel sito della radio e ascoltando l'intervista. Basta andare a "riascolta i programmi" e cliccare su "per vie traverse".
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