In una località di mare
C’è un po’ di ruggine sulle vecchie ringhiere blu che cingono il gazebo di un lido. Le hanno ridipinte due anni prima, ma la salsedine le sta già di nuovo rovinando. Alla fine di agosto, in una piccola località di mare, le famiglie vengono sempre con i ragazzi a trascorrere qualche giorno di vacanza, in attesa che le scuole ricomincino. Affittano un ombrellone e alcune sedie e sperano nell’ultimo sole estivo. Un bagnino vestito di rosso, con le unghie dei piedi molto piccole, è seduto sulla riva a controllare i bagnanti, mentre alcune signore si portano i libri sulla scogliera e stanno con i piedi nell’acqua. Parlano di figli e piatti da cucinare, di scuole e camere da letto. Quel giorno fa molto caldo. C’è un uomo di cinquant’anni, alto, molto magro e con i baffi, ha un sorriso caldo, ama la musica classica, le caramelle alla liquirizia e non mette mai i guanti, nemmeno d’inverno. Lavora tutto l’anno in una banca, lo mandano di città in città a controllare conti e sportelli. Prende aerei, treni, autobus, guida per ore la sua macchina, ma non sa andare in bicicletta: non ne ha mai avuta una, quando era piccolo la sua famiglia era molto povera, lui usciva a giocare con i suoi pochi amici per le strade di un’antica città dove c’erano tanti gatti, poi all’ora della merenda chiedeva alla madre da sotto il balcone pane e pomodoro. E la madre li preparava e li metteva in un sacchetto di carta, su cui l’olio faceva spuntare delle macchie scure ma profumate: quando usciva sul balcone, aveva una veste azzurra e lui era ancora lì sotto ad aspettare. Ad aspettarla. Ora, in questa piccola località di mare, quest’uomo si gode un gelato sotto l’ombrellone, lo mangia voracemente, come fa sempre. Ha finito di leggere il giornale, non vede più la moglie e il bambino. Ma guarda meglio gli scogli, la moglie sta parlando con un’amica, si appoggia a un cuscinetto gonfiabile per stare a galla in acqua. Sente l’eco dei loro discorsi, ma non distingue le parole. Si sente tranquillo. Il bambino è al gazebo, dove alcuni videogiochi e un vecchio flipper davanti ad alcuni tavoli in plastica bianchi sono l’attrazione principale. Accanto al gazebo c’è un piccolo bar con una veranda dove i proprietari del lido servono bibite fresche o il caffè con la panna. Ogni mattina in quel bar un uomo simpatico con l’impermeabile blu arriva, ordina e si siede vicino alla finestra. A volte guarda, altre volte, sempre seduto, scrive sul retro di alcuni volantini colorati. Viene al lido anche quando fa caldo, ma nessuno gli chiede mai perché indossi un impermeabile. Il padre sotto l’ombrellone pensa al figlio, pensa che non passa sempre molto tempo con lui, che durante l’anno lo vede solo nel fine settimana, che non sa sempre cosa faccia, cosa pensi, come cresca. Lo raggiunge al gazebo. Il piccolo ha appena finito una partita a flipper, non è molto bravo, nota spesso che certi suoi amici riescono a fare molti più punti, mentre lui perde subito. Ora, questi amici sono andati a fare il bagno, ma lui non vuole stare con loro. A volte lo prendono in giro, allora lui si sente più sicuro nel gazebo, ha notato l’uomo simpatico con l’impermeabile blu, ma non vuole disturbarlo, anche se gli fa piacere che lui ci sia. Il padre arriva, sorride nel vederlo giocare goffamente con il flipper. Vuole fare una partita anche lui, non ha mai giocato al flipper, sarebbe bello farne una con il bambino, ma ha lasciato i soldi sotto l’ombrellone. Il figlio si gira verso il padre, capisce che vorrebbe giocare con lui ma non sa come dirgli che non ha più monete. Pensa sia una occasione persa, che il padre non era mai venuto a vederlo giocare, che vorrebbe non aver già usato tutte le monete. “Ah, le hai finite?”, dice il padre, senza nascondere un leggero dispiacere. “Sì.”. Pausa. “Scusa”. Alcune lacrime di amarezza lo attraversano internamente. Il padre sorride: “Hai fatto il bagno? Andiamo da mamma?”. E il bambino segue il padre sorridendo, ma pensa che avrebbe dato qualsiasi cosa per avere un’altra moneta, in quel momento. Glielo leggevo in faccia, perché anche io ero in quel gazebo. E ho visto tutto.
Palermo shooting (Wim Wenders)
L’ultimo suo film, Wim Wenders ha deciso di andarlo a girare a Palermo, richiamandone con grande stile gli angoli, i mercati, i cortili, le piazze affollate, le grida del popolo. “Palermo shooting” è un'opera molto strana ed evocativa, piena di spunti letterari e filosofici, il cui mistero non può certo sfuggire a chi conosce questo regista. E’ la storia di un artista tedesco, maestro del design, che in patria gode di grande successo (è tra l’altro il fotografo ufficiale di Milla Jovovič, che nel film compare nel ruolo di se stessa), ma che sente un vuoto dentro di sé. Il mondo frivolo del jet set, l’inconsistenza delle sue avventure di dongiovanni, una certa tendenza alla malinconia e alla solitudine lo spingono a intraprendere un’esperienza, inizialmente di lavoro, a Palermo. Ma oltre al fascino della città siciliana, a trattenerlo qui è una catena di misteriosi incontri con un uomo incappucciato e tutto vestito di bianco, che lo sorprende con dei dardi di cui solo alla fine comprendiamo il significato: “la morte è una freccia scoccata dal futuro”, dice infatti questo fantasma dal volto di Dennis Hopper, quando incontra il protagonista in un’antica biblioteca simile alle prigioni di Piranesi. In effetti il designer e fotografo, tra le strade affollate di Palermo, aveva sorpreso la morte una prima volta con la telecamera, poi con la macchina fotografica dopo aver scansato una sua freccia. Flavia, una restauratrice interpretata da Giovanna Mezzogiorno che sta lavorando da due anni proprio a un antico affresco che rappresenta la morte, quindi l’unica a credere ai suoi vaneggiamenti, accompagna il fotografo sulla strada dell’uomo incappucciato. Il dialogo finale con la morte, che si scoprirà poi essere più preziosa di quanto si pensi, riprende in chiave moderna “Il settimo sigillo” bergmaniano, mentre la figura del viaggiatore in cerca di sensazioni ricorda John Malcovic a Portofino in un episodio di quel piccolo capolavoro che è “Par delà des nuages” di Antonioni. Una dedica importante a questi due grandi maestri, morti lo stesso giorno durante la lavorazione del film, li mette in relazione. Del tutto personale, invece, è la rielaborazione che Wenders fa del tema dell’immagine. In filosofia infatti, l’immagine è sempre legata alla morte, poiché è una rappresentazione che si sgancia dallo scorrere del tempo, non ha inizio né fine, non ha vita, ricorda l’ultima storia, la bellezza ma anche la catastrofe, è autoreferenziale. La fotografia è oggi l’immagine per antonomasia, spiega il bianco spirito Dennis Hopper, ma più di tutto ha rovinato quest’arte la comparsa del digitale, che toglie al negativo la concentrazione dell’artista, il fascino dell’invisibile, l’espressione delle ombre, ma anche il mistero del doppio: perdiamo col digitale la coscienza istantanea di essere sull’orlo di due realtà, tra le quali si oppongono forze speculari e forme rovesciate. Ora l’uomo dorme su letti giganteschi, ora si rannicchia su giacigli minuscoli, la forma e la mente non combaciano. Solo sfiorando la morte, oppure rifiutando di apprezzare la vita (il protagonista fa entrambe le esperienze), si può stare nell'aldiquà e nell'aldilà. Salvo poi conoscere e ritornare nel mondo. Come non farsi catturare da queste riflessioni e immagini sulla soglia di Wenders?
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