In una farmacia
C’è davanti alla farmacia una piccola aiuola con delle lastre di pietra per permettere ai pedoni di passare sul terreno senza fare il giro. Davanti all’aiuola una grande macchina tutta blu. È stata parcheggiata di fretta, come per un’emergenza, e siccome occupa metà della strada, le macchine che passano in questa sonnolenta domenica d’estate devono procedere lentamente. All’interno, sul sedile anteriore, una ragazza si stiracchia e aspetta il conducente, muovendo le dita sul cruscotto. Sembra stanca. C’è musica nella macchina, ma i finestrini sono alzati e all’esterno non si sente quasi niente. Nella farmacia, una signora con un vestito rosso sta comprando dei farmaci che ha appena ordinato con una ricetta. Dietro di lei, in attesa di poter parlare, proprio in corrispondenza di una lunga linea gialla, avanza una ragazza con una maglietta blu senza maniche, dei pantaloni corti e scarpe da ginnastica molto sporche non allacciate. Ha i capelli ricci e castani, raccolti con poca cura, come se un’ombra di femminilità sia stata bruscamente soffocata tra le curve rigide di un corpo maschile. Gli occhi sono spenti e scuri, le borse evidenti, ma lo sguardo è vigile, attento ai gesti veloci della farmacista. Sul volto è impressa una grande fatica, ma anche la noncuranza per gli sguardi degli altri, la pelle è leggermente scura, le unghie rovinate. “Mi dica”, dice la farmacista a cui basta uno sguardo per capire tutto: ha i capelli corti e grigi, un aspetto austero e poco materno. Una gentilezza scostante. “Vorrei un disinfettante, un disinfettante per un piccolo taglio. Ero in cucina e…” La interrompe per l’imbarazzo: “Il mercurio cromo andrà benissimo. Una boccetta è sufficiente?” La ragazza annuisce e non dice altro, guarda la farmacista correre elegantemente dietro uno scaffale con i farmaci per l’allergia. Vicino alla cassa, dietro al bancone, c’è un uomo con un impermeabile blu. Sta maneggiando delle carte da gioco, fa un solitario che sembra non avere alcun senso, ma ogni volta che estrae una carta dal mazzo guarda la ragazza, distratto da quegli occhi di sofferenza. E sorride: è simpatico, l’uomo con l’impermeabile blu. Fuori fa caldissimo, ma la ragazza non si chiede perché lui porti questo impermeabile. L’uomo incrocia il suo sguardo un’ultima volta, poi si alza di scatto e va anche lui nel retro della farmacia, proprio mentre torna la farmacista. “Sono quattro euro”, dice lei per affrettare il congedo. “Ah, e poi mi servirebbero…”, aggiunge la ragazza, con imbarazzo anch’ella, senza riuscire a nascondere che lo scopo per cui è entrata è questo secondo acquisto: “…dieci siringhe”. Guarda la farmacista, sentendosi anche un po’ colpevole. Sua sorella la sta aspettando a pranzo, con le due bambine. Ci sarà ancora quell’odiosa carne ai funghi che lei non ama, ci saranno ancora i quaderni con i disegni da colorare sul tavolo, il pavimento lucido, il televisore in bianco e nero, e poi le domande ingenue delle bambine, a cui lei vorrebbe rispondere davvero: “vostro nonno non esiste, è andato via dieci anni fa, non è vero che la nonna vive lontano: si è suicidata. E poi non vedete che vostra madre guadagna bene perché si prostituisce, è ancora una bella donna, ma io, io non più, io mi drogo? Perché ridete e vi divertite quando siamo infelici, perché continuate a credere a quello che vi diciamo?”. E poi ci sarà il primo sguardo della sorella, uno sguardo ormai rassegnato, che accompagnerà le sue parole consuete, sulla soglia dell’appartamento numero 8, dopo il campanello: “L’hai fatto ancora, vero?”. Io ho sentito quelle parole, perché c’ero anche io su quella soglia.
In una località di mare (2)
Arrivarono un torrido mattino d'estate, dopo un lungo viaggio in nave. In quella casa affittata sulla fiducia qualche mese prima, c'era molta luce e un bel po' di polvere, non era un buon segno, pensò lei. Dopo essere arrivati a G. A., lui era andato al centro servizi a pagare l'affitto per tutto il mese, mentre lei e i due bambini si erano fermati sul marciapiede a guardare il mare da lontano. Mentre lui pagava, la signora stanca e acida che gestiva l'agenzia, non faceva di certo il suo meglio per essere gentile. Non adorava i turisti. Brutto segno, aveva pensato lui. Per la strada, dove aspettavano che lui arrivasse con le chiavi, lei già era in preda a una frenesia incontenibile, diceva disordinatamente ai bambini quello che avrebbero potuto fare: “potete prendere il pedalò, ma prima facciamo tutti colazione insieme, fate quello che volete, basta che venite a pranzo e a cena, però sapete quanti nuovi amici...”, poi ogni tanto si girava verso la porta dell'agenzia e intercalava il suo discorso chiedendosi ad alta voce: “ma dove è finito vostro padre?” E giusto un pizzico di afosa, emozionante preoccupazione si mischiava in lei alla fresca sorpresa di scoprire un mondo nuovo. Con i propri figli. Per la strada c'era un odore penetrante di piante, il sole bruciava, uno dei bambini sudava e rideva continuamente, l'altro chiudeva gli occhi per il troppo sole e non parlava. Non parlava mai se non aveva un motivo. Lui uscì dall'ufficio con le chiavi in mano, il dito infilato nell'anello che le teneva insieme. Sorrideva a tutti e tre, mentre si avvicinava a loro stanco, ma soddisfatto. Andarono subito ad aprire la casa, lei temeva che i bambini avessero sete. Notò subito la polvere, si fece triste, sbuffò di nascosto, poi più apertamente si lasciò scappare che ce n'era troppa, di polvere, che alcuni mobili le sembravano troppo vecchi, che c'era una mattonella rotta in sul balconcino... Uno dei due bambini pensò che un minuto prima lei sembrava contenta, ma ora non più. Lui temeva questo. L'altro osservava gli angoli della casa, il letto e le pareti bianche, immaginava di essere su una casa volante, che ogni volta che doveva fare pipì sarebbe sceso dal pallone aerostatico verso il vuoto per chilometri interi, con una fune lunghissima, accompagnato da un cantante diabetico che conosceva solo lui. Mentre fantasticava non si accorse che gli altri tre erano saliti al piano superiore, dove c'erano le due camere da letto e il bagno. Lei, ancora un po' contrariata, alzò la tapparella della finestra che dava sul balcone. E vide il mare. Fu come se qualcosa di dolcissimo aggredisse di colpo il suo sangue. Nel vedere il mare capì che lo avrebbe ammirato tutte le mattine, mentre prendeva il caffé e i bambini ancora dormivano e lui era in bagno a farsi la barba, e non li avrebbe svegliati per tenersi quel momento per sé, un attimo di beatitudine da vivere da sola, per poi distribuirla agli altri con ansia genuina, immediato bisogno di un riscontro. Si girò verso di lui e urlando di gioia, una gioia al limite del pianto, andò ad abbracciarlo, incontenibile (era questa incontenibilità che dava fastidio al piccolo, mentre il maggiore continuava a guardare con curiosità i bicchieri trasparenti che la padrona di casa aveva lasciato). Lui accettò l'abbraccio di lei con una gioia diversa, più razionale, come quella che nascostamente si vive nel ricevere un cenno di comprensione da chi ti ha capito in mezzo a tanti interlocutori lontani, e sorridendo con voce ferma disse (rivedo le sue grandi mani fare un prolungato gesto di contenimento): “Calma, calma. Con calma”. Ricordo bene questo momento, perché in quella casa vicino al mare c'ero anche io.
Iscriviti a:
Post (Atom)